Masolino dཿAmico, La Stampa 11/4/2010, pagina 34, 11 aprile 2010
SHAKESPEARE, ESSERCI O NON ESSERCI (2
articoli) -
Per un paio di secoli dopo la morte di William Shakespeare nessuno sollevò dubbi né sull’esistenza dell’uomo nato e sepolto a Stratford-upon-Avon né sulla paternità delle opere tramandate sotto il suo nome. Le discussioni sulla prima e sulla seconda cominciarono intorno al 1850, e piano piano conquistarono molti proseliti. Nel 1948 si calcolò che esistevano più di 4500 libri in cui si proponeva di assegnare ad altri il canone shakespeariano, ma ultimamente grazie a Internet il numero degli apostati si è talmente moltiplicato che valutare l’ampiezza del fenomeno è impossibile. Tra gli aderenti storici all’eresia furono Mark Twain, Sigmund Freud, Henry James, tra quelli attuali sono attori illustri come Derek Jacobi e Jeremy Irons.
Tuttavia le tesi negazioniste non sono ancora penetrate negli atenei: gli accademici le hanno sempre minimizzate, incoraggiando coloro che per principio credono ai complotti. Così ha pochi precedenti l’iniziativa di un esperto di spicco, James Shapiro, già autore di 1599, il più brillante tra i recenti studi shakespeariani. A differenza di suoi predecessori, in Contested Will: Who Wrote Shakespeare? (Faber & Faber, 2010, pp. 368, £ 20) costui non sbeffeggia gli aspetti più esagerati delle tesi avanzate, né sottolinea che la prima «baconiana» finì i suoi giorni in manicomio, o che il primo «oxfordiano» si chiamò Looney, ossia «svitato»: ma riassume onestamente le tesi di questi e di altri contestatori, tentando di capire i loro motivi.
Quando si cominciò a discutere sull’identità del cigno dell’Avon, ricorda Shapiro, il revisionismo era di moda: a metà Ottocento fiorirono Darwin, la questione omerica, la rilettura critica delle Sacre Scritture. Shakespeare, è vero, aveva lasciato tracce tangibili della sua esistenza, ma queste parvero inadeguate quando in epoca romantica la figura del Bardo assunse dimensioni sovrumane e quasi mitiche. Colui che i contemporanei avevano onorato come un eccellente poeta e drammaturgo fu ora venerato quasi come un dio. Si interrogarono allora i suoi dati biografici, e li si trovarono deludenti. Eliminati i documenti contraffatti da ammiratori di pochi scrupoli, di concreto rimasero solo la firma sul testamento, le registrazioni di certi acquisti immobiliari, alcune transazioni finanziarie. Sublime artista o avido uomo di affari?
Si sapeva che Shakespeare era nato in provincia, da una famiglia di artigiani, ma nulla risultava di suoi studi particolari. Possibile che l’arido campagnolo possedesse la cultura, la finezza intellettuale e l’uso di mondo alla base di testi immortali? Una insegnante americana, tale Delia Bacon, si convinse per prima che il presunto commediografo doveva essere il prestanome di un uomo di ben altra statura, e propose il proprio omonimo Francis Bacon, ammiratissimo come uno dei massimi sapienti del tempo. La Bacon non spiegò quando il grande giurista, filosofo e uomo di Stato avrebbe trovato il destro di aggiungere tanto materiale alla sua già sterminata produzione, ma, convinta che i drammi contenessero messaggi rivelatori in codice, li indagò alla ricerca di conferme. Sulla sua scia fioriscono accanite interrogazioni dei testi, culminanti nella complicata macchina con cui un ex medico, tale Orville Ward Owen, vi cercò acrostici, senza risultati apprezzabili malgrado le migliaia di pagine che sfornò. Alla teoria aderì peraltro Mark Twain, per il quale nessuno scrittore poteva essere altro che autobiografico.
Col Novecento la stella di Bacone tramontò. Al suo posto ne sorse un’altra, per iniziativa dal surricordato J. T. Looney. Costui trovò in una antica antologia un poemetto composto nel metro del Venere e Adone di Shakespeare, a opera di Edward de Vere, diciassettesimo conte di Oxford, aristocratico in fama di poeta e autore di commedie non pervenute, e subito ne dedusse che costui fosse l’uomo giusto: aveva viaggiato, conosceva la Corte, aveva sposato una ereditiera giovane come Giulietta, aveva persino ammazzato un servitore come Cornovaglia nel Lear. Insomma, aveva avuto ben altre esperienze che il villico di Stratford, e i drammi di Shakespeare raccontavano certamente quanto vissuto dal loro autore. Purtroppo Oxford era morto nel 1604, quando Macbeth, Lear, Racconto d’inverno e Tempesta non erano ancora andati in scena. Looney decise che Tempesta era apocrifa, e che gli altri lavori Oxford li aveva scritti prima di morire. L’idea del lord piacque comunque a Henry James, che nel suo snobismo negava altezza di pensiero a un plebeo, e convinse Freud, per cui Shakespeare in Amleto parla del proprio complesso edipico.
Queste teorie e altre consimili - Bacone e Oxford sono solo i più gettonati di una galleria di cui hanno fatto parte tra gli altri Marlowe, John Florio, la regina Elisabetta... - tradiscono conoscenze del mondo e della letteratura elisabettiani molto più limitate di quelle dello studioso odierno. Oggi l’idea che un drammaturgo inglese tardocinquecentesco parlasse di sé, sia pure in codice, sembra inconcepibile, senza contare che il concetto di un unico genio tutto teso a raccontarsi è ulteriormente confutato dalla scoperta della presenza di collaboratori in parecchi lavori precedentemente attribuiti al solo «Shakespeare».
Questi e altri argomenti, sintetizzati in una coda non meno sobria della paziente anche se spesso assai amena rassegna di estrose soluzioni del presunto problema, sono addotti da Shapiro per spiegare come mai lui, ma certo anche ogni lettore senza paraocchi, continui a credere che il ragazzo di Stratford abbia potuto veramente fare quello che ha fatto. Oltre a essere un avido lettore e un figlio del suo tempo, forse a colui che giace nella tomba di Stratford bastò possedere, in dosi, questo sì, non comuni, fantasia, orecchio, curiosità, mestiere, spirito di osservazione e comprensione umana.
Masolino d’Amico
***
Essere o non essere: questo è stato davvero il problema per gli accademici che per decenni si sono tormentati non meno di Amleto sull’identità dell’ultima dimenticata opera shakespeariana. Era la stessa mano del Sogno di una notte di mezza estate quella che firmò Duble Falsehood, Doppio inganno, tragicommedia ispirata a un personaggio del Don Chisciotte di Cervantes e messa in scena nel 1727 dall’impresario londinese Lewis Theobald? Dopo secoli di rivelazioni e smentite la casa editrice Arden, custode della più prestigiosa collana di testi del Bardo di Stratford-upon-Avon, mette la parola fine alla massima querelle della letteratura elisabettiana sposando la tesi del professor Brean Hammond, uno studioso dell’Università di Nottingham che ha dedicato metà della sua carriera alla soluzione del rebus. Convinta che i primi tre atti contengano effettivamente frammenti della storia di Cardenio, composta da Shakespeare e perduta durante un incendio del teatro Globe, la Arden pubblicherà Duble Falsehood e dal 15 maggio aggiornerà il catalogo con i celebri titoli del maestro.
Molto rumore per nulla? Gli avversari di Hammond insistono che l’opera non è interamente originale. E sia. Pare che Shakespeare, affascinato da Cervantes, avesse convinto l’amico John Fletcher a scrivere a quattro mani una sorta di seguito al Don Chisciotte, riuscendo però a rappresentarlo una sola volta nel 1613. Per riconoscere l’impronta del genio non c’è che da attendere qualche mese quando la Royal Shakespeare Company allestirà le avventure di Cardenio e Luscinda. Tutto è bene quel che finisce bene.
FRANCESCA PACI