vittorio zucconi, la Repubblica 12/4/2010, 12 aprile 2010
LE PENNE DEL POTERE 2
«Or sono diciassette lustri e sette anni - cominciò a correre la mano lunga e scarna sul foglio - i nostri avi costruirono su questo continente una nuova nazione concepita nella libertà...». Curvo sulla piccola scrivania chiazzata appena dal lume a petrolio nella notte del novembre 1863, Abramo Lincoln prese un foglio di carta intestata della Casa Bianca e con queste parole cominciò il più celebre discorso nella storia americana. Sarebbe divenuto «l´Indirizzo di Gettysburg» che avrebbe letto alle truppe impegnate nella battaglia decisiva della Guerra Civile. Lo scrisse, e lo riscrisse per cinque volte, da solo, consumando al punto l´inchiostro da essere costretto a finirlo usando una matita. Ma si sarebbe consumato le dita, Lincoln, piuttosto che affidarlo, come tutti i suoi futuri successori - da Warren Harding (che nel 1921 assunse un «assistente letterario» per aiutarlo a scrivere) fino a Barack Obama - avrebbero fatto a un mercenario pagato per mettergli parole in bocca, a una mano fantasma, a un professionista della retorica, a un «ghost writer».
Forse i presidenti e i politicanti del XX e del XXI secolo sono troppo indaffarati e il loro tempo è troppo prezioso per consumare le notti a scriversi i propri discorsi, non che Lincoln, con una guerra devastante da condurre e una nazione sull´orlo della frantumazione fosse uno scioperato. Ma la figura degli «uomini invisibili» come si fanno chiamare, «ghost writer», del moderno Cyrano de Bergerac che suggerisce dietro le quinte a un Christian le parole d´amore per la sua Roxanne, è ormai inevitabile, come il «gobbo» per i lettori di telegiornale o i leggii di plexiglas invisibili davanti al podio per i discorsi fintamente spontanei pronunciati dalle loro eccellenze.
Tutte le memorabii frasi, i colpi d´ala ciceroniani, che ricordiamo e attribuiamo ai capi di stato americani sono farina di sacchi altrui, panificata dai più bravi per corrispondere alla persona - o più spesso all´immagine pubblica - del personaggio che le pronuncia. Il «giorno che vivrà per sempre nell´infamia», gridato da Franklyn Roosevelt per denunciare Pearl Harbour e dichiarare la guerra fu la coproduzione di almeno cinque dei dieci retori che lui usava abitualmente. Furono Ralph Williams e Malcolm Moos, nomi oscuri, coloro che denunciarono, con la voce di Eisenhower il «complesso militar-industriale», producendo un´eco indimenticata. E appartiene al geniale Theodore Sorensen, il Mago Merlino della parola che costruì la Camelot kennedyana, l´esortazione a «non chiedere che cosa la nazione possa fare per me, ma che cosa io possa fare per la nazione», frasi che nel ciuffo fresco di JFK e nella sua affabile passione parvero, per un lancinante momento, vere.
Deve essere, quello dello scrittore nell´ombra, il mestiere più frustrante del mondo.
Robert Schlesinger, figlio del grande storico Arthur che contribuì non poco ai discorsi kennedyani, ha raccontato lo zelo, la fatica e la frustrazione che bollono sotto tra quelli che il padre chiamava «i fantasmi della Casa Bianca» e che appartengono a una bizzarra, spesso invisibile confraternita di frustrati. Una delle frasi più commoventi pronunciate da George W. Bush sulle rovine delle Due Torri - «sia che noi vi portiamo davanti alla giustizia, sia che portiamo la giustizia davanti a voi, giustizia sarà fatta» - fu concepita da uno speechwriter di Clinton, che la telefonò a un collega rimasto a lavorare nella scuderia di Bush che la inserì nel discorso.
Altri si odiano, si rimproverano la vanità, tentazione proibita, come accadde al principale spettro di Bush, Micheal Gerson, accusato da un altro fantasma, Matt Scully, di farsi troppo bello e di violare il primo comandamento degli autori spettrali: la invisibilità. Peggy Noonan, la prima speechwriter femmina, capace di incantevoli e commoventi immagini con sensibilità femminile che Ronald Reagan, attore professionista, interpretava con studiata sincerità, divenne protagonista, autrice di libri, personalità televisiva, soltanto dopo avere lasciato la Casa Bianca. Il suo talento, che raggiunse l´apice nella citazione poetica affidata al presidente alla cerimonia per l´addio agli astronauti del Challenger disintegrati in volo - «siete volati oltre il sudiciume della Terra e avete toccato il volto di Dio» - nascondeva la dose di cinismo indispensabile a sopravvivere in questo mondo di muti che parlano con la voce degli altri. «Non vi innamorate mai di un politico perché sono tutti una delusione. Non è colpa loro, lo sono e basta».
Tanto più cristallina è la voce, tanto più alta la sofferenza dei suggeritori. Il giovanissimo e brillantissimo «fantasma in capo» di Barack Obama, il neppure trentenne Jon Favreau, colui che mette le ali della retorica al carisma del presidente, fu pizzicato a sfogare la propria frustrazione in un bar di Washington, con una sagoma di cartone della odiata Hillary Clinton che lui adoperava in pose e atteggiamenti sconvenienti. Ma Obama lo adora, perché sa quanto alte volino le sue parole e quanto bene sappia tagliare i discorsi sulla misura dell´uomo, anche se il vecchio Sorensen con affettuosa malizia ha fatto sapere di essere lui, l´ottantenne Cyrano kennedyano, ad avere suggerito lo slogan vincente della campagna elettorale, lo «Yes we can», sì, possiamo.
Ormai, in tutto il mondo, la figura di questi segretari del principe, di questi uomini che devono trovare le parole che da soli i politicanti non saprebbero trovare, è inevitabile, come il truccatore che spalma il fondo tinta con minore o maggiore discrezione, il parrucchiere che spruzza l´ultima lacca sui capelli prima della diretta, il regista produttore che deve scegliere scenografie, sfondi, luci e profili.
La matita spuntata di Lincoln che cambiò la storia americana con il discorso prima della battaglia è diventata un ufficio di 12 spettri permanenti, alla Casa Bianca, anacronistica come la luce della fiammella a petrolio che illuminava la sua elegante grafia sulla carta giallina, la notte di novembre del 1863. «Nessun discorso vale niente, se la politica che vuole esprimere non vale niente», ci confrota Peggy Noonan, la regina della retorica e forse ci crede.