FILIPPO CECCARELLI, la Repubblica 12/4/2010, 12 aprile 2010
LE PENNE DEL POTERE 1
Oh penne ombra, angeli custodi del transfert, camaleonti a comando, pensatori a doppio fondo, eroi e martiri della spersonalizzazione, militi ignoti della scrittura di vertice, replicanti a gettone, protagonisti di seconda mano… Tutto il potere ai fantasmi! Altro che film di Polanski: sarebbe un bellissimo colpo di Palazzo se un bel giorno anche solo uno dei tanti ghost writer che affollano le anticamere bussasse alla porta del suo signore e padrone e: «Ehi, vattene, da adesso la tua voce è la mia e quella poltrona mi spetta!».
Sarebbe bellissimo, ma non accadrà. In Italia, dove tutto è drammaticamente antico, questa figura professionale s´era già guadagnata la sua maledizione fin dai tempi dei tempi; e se proprio, saltando Seneca e gli antichi romani, occorre evocare un qualche illustre antenato, un qualche spettrale precursore, subito corre il pensiero a Pier delle Vigne, che fu poeta, maestro di retorica, notaio, giudice della Magna Curia, logoteta del Regno e «tenne ambo le chiavi/del cor di Federigo» anche in qualità di estensore delle lettere imperiali. Il quale Ghost Pier, come si sa, fece una brutta fine e non solo perché Dante lo piazzò all´Inferno (XIII canto, secondo girone, settimo cerchio, tra i suicidi trasformati in arbusti, donde il celeberrimo «Perché mi schiante?»).
Così, per prenderla meno da lontano, ma sempre all´insegna della dannazione che affligge la categoria: nel 1992 un funzionario della Cariplo che scriveva articoli firmati dal suo presidente si vide respingere dal pretore il riconoscimento dei suoi diritti - e con essi la pubblica identità del suo ufficio.
Pronunciamento che mise una pietra su qualsiasi rivendicazione, in via definitiva relegando quella funzione ai confini dello schiavismo. D´altra parte per lungo tempo i ghost writer furono chiamati, poco simpaticamente: "negri". Le piantagioni di cotone del loro servaggio occupavano grosso modo il mondo delle grandi aziende (l´avvocato Agnelli, massima civetteria, disponeva di un negro che era stato anarchico) e i terreni della Santa Sede (dove operavano sette gruppi linguistici); fino a lambire i campi dell´editoria (pure con casi di liberti affrancatisi da quella dura condizione previa adozione di pseudonimi).
Per quasi tutto il Novecento la politica resistette strenuamente alla tentazione dei ghost writer. L´idea di fondo, e anche il vincolo e la necessità, erano che i politici i discorsi dovessero scriverseli da soli. O almeno: così faceva Mussolini, che oltretutto era un fior di giornalista, e poi De Gasperi, come racconta Andreotti nei suoi diari giovanili, e Nenni e Togliatti, del quale divennero famosi i riferimenti letterari, che a loro volta davano vita a polemiche di alta filologia su un pronome di Cavalcanti o di Guinizzelli. Chiunque rilegga oggi un discorso di Moro, perdendosi in quella prodigiosa officina di sfumature, trova impossibile immaginarvi dietro l´opera di un estensore; così come Tonino Tatò, che fu il braccio destro di Berlinguer, ha raccontato nei dettagli come nascevano gli interventi del segretario generale del Pci, che si andava a rinchiudere in solitudine nella grande sala del Comitato centrale alle Botteghe Oscure, acqua minerale, giornali, libri, sigarette, attaches, la segretaria Anna che discretamente ritirava via via il manoscritto restituendo le parti già battute a macchina.
Ma a quel punto dovette rompersi qualcosa. Al pari di tanti altri prodotti d´importazione quali gli spot, lo staff, le lobby, i think tank, gli anchorman e il talkshow, questo "qualcosa" arrivò dall´America. Ma forse da tempo lo reclamava l´ormai insorgente professionalizzazione del potere. Fatto sta che già alla metà degli anni Settanta Andreotti lasciò che il consigliere economico Cappugi battezzasse il suo governo "della non sfiducia"; e un po´ più tardi i "ragionamendi" di De Mita furono sistematicamente messi in bella forma da Giovanni Di Capua, autore del miglior dizionario del politichese ancora in circolazione; così come Craxi, pure nelle vesti di Ghino di Tacco, senza risparmio approfittò della penna pungente di un giornalista dell´Avanti!, Franco Gerardi.
Con ragionevole approssimazione si può ritenere che il grande pubblico degli italiani scoprì la figura del ghost writer sempre al cinema, per l´esattezza nel 1991, con Il Portaborse di Daniele Luchetti: nel film, in realtà, il ruolo del giovane professor Sandulli (Silvio Orlando) è appunto quello di scrivere i discorsi per il feroce ministro Botero (Nanni Moretti), a cui il regista mette in bocca un vero e polemico e anche strambo intervento craxiano sul Parlamento come entità destinata a occuparsi dei "molluschi eduli lamellibranchi" o dell´«eviscerazione dei volatili da cortile». Senza indulgere in eccessive pedanterie ci si limita a dire che le crepe della Prima Repubblica senz´altro favorirono lo sviluppo dei fantasmatici prosatori: vedi la mano di Arturo Parisi dietro ai proclami del leader referendario Segni; e vedi anche Bossi, che nei suoi primi anni romani si faceva ampiamente aiutare da un quasi novantenne giornalista ex democristiano, Gigi Rossi, con cui poi litigò.
Com´è tristemente noto in tutti i campi, il problema nazionale è la commedia. Per cui ben presto la moltiplicazione dei ghost writer si fece non solo vistosa e sfacciata, ma anche assurda. In estrema e paradossale sintesi: meno la politica veniva letta e più i politici presero a parlarsi e a scriversi addosso. Con il bel risultato che il declino della parola e pure un certo analfabetismo finirono per esaltare la professionalità mercenaria di compilatori più o meno improvvisati. E da allora, si può dire, è un diluvio di frasi a effetto, di citazioni ora bolse e ora eccentriche, di improbabili Pantheon, e di Carte dei valori, di Principi ispirativi, di Orientamenti programmatici, di Dichiarazioni d´intenti.
Vero è che nel frattempo la figura del ghost writer conquistava spazio anche nel sociale, lungo un arco che dalle mistiche esperienze del vescovo di Civitavecchia, per via della Madonnina di Pantano, arrivava fino alle acerbe memorie di Riccardo Schicchi - e oltre. Ma rispetto alla sottoletteratura di partito ci fu anche chi sempre in incognito e a distanza di mesi scrisse il Manifesto della lista Dini e i Criteri ispiratori di quella Di Pietro. Senza contare l´operoso contributo di Richi Tiki Levi, la mangusta di Prodi, dei pelatissimi Lothar dalemiani (Rondolino, Velardi) della Summa Physichelliana (dal cognome del prof Domenico) di An e della task-force del sindaco Veltroni, a nome del quale nel 2007 furono conteggiate ben 66 prefazioni di libri su argomenti che comprendevano anche l´esoterismo, le favelas, la coltivazione delle mandorle, Ustica, in bici da Dakar, oltre al volume Mo´ je faccio er cucchiaio by Francesco Totti. Inutile dire che in tale già parecchio animato contesto il presidente Berlusconi trovò subito il modo di distinguersi per abbondanza e qualità di ghost writer: da Letta a Del Debbio, da Baget Bozzo a Giuliano Ferrara, che pure ebbe a che ridire sul preteso suo ruolo: «Ma quale ghost writer! Io mi ritengo semmai uno speech writer, ossia un consulente, anche di buon livello, che non determina la linea, ma se richiesto aiuta a formularla in modo acconcio rispetto alle varie sedi».
Un punto rimarchevole è che il Cavaliere, già prefattore di Erasmo e Machiavelli, vorrebbe tanto far credere che lui non ha bisogno di penne ombra; e così, quando gli dissero che di suo pugno avrebbe fatto meglio a scrivere di don Lurio che di don Sturzo, la prese malissimo arrivando a proporre una specie di sfida «sulla vita e sull´opera omnia» del sacerdote di Caltagirone. Ma poi, alla lunga, deve averci anche fatto il callo; tanto che qualche tempo fa, intervenuto alla Fiera di Bari, ha pubblicamente definito "un mattone" il discorso che gli avevano preparato e si è messo a parlare a braccio. Nel frattempo, però, il suo ghost writer Stracquadanio è diventato onorevole e magari, al prossimo giro, lo fa pure sottosegretario. Tutto il potere, dunque, ai fantasmi - o quasi.