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 2010  aprile 11 Domenica calendario

DORFLES 100 E ADESSO VI DICO QUEL CHE PENSO DI VOI

Cento anni, e allora? Io sono nemico degli anniversari, non li sopporto. E non solo in questa occasione un po’ particolare, diciamo non proprio quotidiana, che mi riguarda. Provo la stessa idiosincrasia anche per quelli altrui. Non parliamo di quelli canonici, le date storiche. Non so quando è stato, che so, l’ Armistizio. O la fine della guerra, o la festa della Repubblica. L’ unico che mi viene in mente, adesso, è il Primo Maggio. C’ è una ragione, naturalmente, la mia antipatia per gli anniversari è legata a un episodio. Quando ho preso la maturità, alla fine del liceo, sono stato bocciato in due materie: storia e matematica. Date, anniversari e calcoli da allora non sono mai riuscito ad inghiottirli: è successo anche più tardi, con quelli economici e finanziari. Oggi, provo la stessa antipatia quando mi trovo a che fare con Internet o con i telefonini: a tu per tu, i numeri mi spaventano, non riesco a dominarli. E così, quando vedo un bambino schiacciare i tasti numerati senza sapere nemmeno che cosa sono, capisco di appartenere a una generazione completamente superata. Eppure, mi rendo ben conto di vivere nel presente. Anzi, l’ infanzia a Trieste, la giovinezza, non mi tormentano nel ricordo, è come se appartenessero anche loro alla storia, e la storia è una mia nemica. E la mia stessa formazione triestino-mitteleuropea, se ha contato in passato, ormai non pesa più. Mi ha aiutato certo all’ inizio, quando, come si diceva allora, da Trieste «sono andato in Italia». Perché avevo una formazione europea che qui non esisteva: avevo letto Wedekind e Kafka, sapevo che cosa significavano Strindberg e Proust. E soprattutto io allora avevo conosciuto Italo Svevo, uno dei maggiori romanzieri europei nel Novecento. Per me si trattava di un pasto quotidiano, mentre in Italia erano ben poco noti. Mi colpisce, a questo proposito, quanto le cose si siano rovesciate attualmente in Italia. Oggi gli uomini italiani di cultura - parlo soprattutto dei critici - sono abbastanza al corrente di quel che succede all’ estero, ma trovo condannabile il fatto che si compiacciano di citare sempre e solo gli stranieri: Baudrillard, Lyotard, va bene; ma vedo un proliferare continuo anche di Edgard Morin, un mediocre, o di Starobinski, bravo ma non straordinario. E intanto Paci e Della Volpe sono spariti, per i giovani è come se non fossero mai esistiti. In altri Paesi, come si sa, avviene esattamente il contrario, e questa la considero una delle tante vergogne della cultura italiana attuale. Perché l’ esterofilia è una bellissima cosa, infatti io stesso mi sono abbeverato a suo tempo al New Criticism d’ oltre oceano. Ma poi basta, già allora avevo capito che sarebbe stato più importante dedicarmi agli autori italiani. E qui lo so, iniziano le difficoltà: perché in parecchi si aspettano che io incominci a parlar bene di qualcuno, e soprattutto male di altri, stilando pagelle lunghe cento anni. Non che non ne sia tentato, ma devo pensare anche alla mia sopravvivenza. Ricevo innumerevoli telefonate di figli, o peggio ancora di vedove, rapaci nell’ esortarmi, nel coinvolgermi in memorie comuni. Per non correre rischi dovrei dir bene solo degli assenti, o di quelli che non ci sono più. Così, parlando di architettura, lodo Lloyd Wright e van der Rohe, sicuro di non attirarmi le ire di Renzo Piano o di Mario Botta. Oppure, in letteratura, apprezzo Borges, perché gli scrittori argentini di oggi non si sentano offesi. O confesso di preferire i versi di Montale e Ungaretti, senza che i poeti italiani se la leghino al dito. Dico di considerare Buzzati un grande scrittore europeo, senza che qualche articolista arricci il naso. Per i triestini, vale lo stesso: Svevo e Saba oggi non fanno ombra a nessuno. E posso ricordare impunemente Bobi Bazlen, il filtro attraverso il quale ho potuto accedere ai letterati di varie aree mitteleuropee. Oppure una personalità oggi dimenticata come il critico Piero Gadda, dal quale ho imparato molto appena arrivato a Milano. Il fatto è che la grandezza di una persona e la sintonia che si può avere con lei, come ho imparato attraverso il tempo, sono due cose ben diverse. Spesso l’ amicizia va al di là del fatto culturale, coinvolge una dimensione differente, fa sì che contino per te persone non importanti, e viceversa. Nell’ incontro con Frank Lloyd Wright a Taliesin, in Arizona, ad esempio, sapevo di essere di fronte a uno dei più grandi architetti del mondo, eppure quando venni ricevuto da lui gentilmente sì, ma con modi piccolo borghesi, mi deluse la sua presuntuosa sufficienza. E dire che volle invitarmi personalmente nella sua casa-scuola: eppure risultò subito evidente che non c’ era simpatia tra noi, non era scattata l’ amicizia. (Qui devo confessare di aver dato sempre una grande importanza all’ elemento simpatia reciproca. Se provo simpatia per una persona, sono sicuro d’ essere ricambiato). Ma visto che tocco l’ argomento architettura - ne possiedo ben tre lauree honoris causa, di cui vado molto fiero - vorrei rendere omaggio a un mio amico d’ infanzia, Ernesto Rogers, col quale fui lungamente a contatto quando frequentava gli ultimi anni del Politecnico. Ebbene, se non fosse stato per lui, forse non sarebbe mai nata dentro di me la passione per questa disciplina, ed è stato così appunto che ho incominciato a conoscere gli architetti. Una funzione vagamente simile, maieutica nei confronti del bello, credo l’ abbia esercitata su di me Alberto Savinio, il primo artista che mi abbia colpito davvero. Io l’ ho sempre considerato più grande del suo grande fratello De Chirico; ma soprattutto nel tempo delle vacanze, andando insieme in bicicletta al «Poveromo», ho avuto la percezione affascinante, ammaliante, di un intellettuale vero, scanzonato e ironico, letterato di prim’ ordine e anche musicista. Per me esistono modi diversi, insomma, di considerare le persone importanti, o almeno interessanti. Come critico, credo di non avere seguito le mode, tanto che mi hanno collocato in una «geografia della marginalità». C’ è di vero che mi è sempre piaciuto scoprire artisti di provincia non seguiti dal mercato, o alle prime armi, come, fra gli anni Cinquanta e gli Ottanta, è successo con Castellani, Bonalumi, Dorazio, Accardi. E lo facevo non per partito preso, ma perché mi pareva di riconoscere in loro certi elementi non ancora esplosi, di scoprire vene artistiche ancora ignote. Del resto uno dei grandi compiti della critica non è quello di portare alla luce ciò che non è ancora affermato? E di gettare a mare ciò che non merita d’ essere salvato? Fra queste ultime cose non rimpiango di avere relegato la Body art, l’ estetica della crudeltà. In un’ epoca come la nostra, dove c’ è chi uccide la figlia perché ha un fidanzato italiano, o ammazza i genitori per l’ eredità, e in cui insomma la crudeltà è un fatto da prima pagina quotidiana, che senso ha mettere in mostra, come fa la Abramovic, le ossa degli animali uccisi? Oppure ferirsi? Certo, accanto a un’ arte del Bene è sempre esistita un’ arte sadica o masochistica. Ma viviamo già, oggi, in un’ epoca in cui il Male è un elemento privilegiato, che bisogno c’ è di propagarlo? Piuttosto, è tempo che i critici ritornino a fare il loro mestiere. Nella mia mostra milanese recente, a Palazzo Reale, mi ha colpito come non mi sia stato mosso nessun rilievo veramente critico: né in positivo, né in negativo. Niente. Solo entusiasmo di facciata per l’ evento in sé, senza il coraggio di formulare un vero giudizio. Il che è un’ abitudine sempre più frequente, non solo nelle arti visive: ormai si sprecano le esaltazioni e le lodi - senza offesa, me ne vengono in mente alcune per Alda Merini - e ci si ferma lì, per paura, o per evitare d’ essere criticati dai colleghi. Insomma, io devo aprire le pagine del «Financial Times» per imparare qualcosa: di recente, ci ho trovato un lungo articolo su Ian McEwan, per me il più grande scrittore vivente. Era un’ apoteosi del letterato, ma una critica aspra del suo ultimo romanzo, Solar. Beh, non ho mai trovato qualcosa di analogo sulle nostre riviste. Dico allora che bisogna ritornare a dire la verità. Che bisognerebbe cancellare tutte le periferie di tutte le città d’ Italia. Dalla Toscana a Torino, terribili. Che Milano non ha un piano urbanistico regolatore, la prima cosa di cui avrebbe bisogno. Che i grandi scrittori del secolo scorso, con tutta la loro grandezza, hanno fatto il loro tempo: persino i Proust e Sartre, i Broch o i Cocteau, Henry Miller o Joyce. Che le grandi mode culturali, come il gestaltismo - la teoria della forma - e la semiotica hanno già assolto la loro funzione di aprire una nuova strada alla critica italiana. Che il femminismo è sgradevole, e io ne sono un nemico feroce: riconosco alle donne parità di diritti ma trovo abominevole che alcune si facciano chiamare al maschile dottore o professore, senza rendersi conto di andare contro l’ eguaglianza sociale dei due sessi. (Peggio ancora quelle che vorrebbero fare del femminismo una prerogativa, come se si considerassero una categoria a sé). Che il Sessantotto... quello non so a che cosa corrisponda... è la mia idiosincrasia per le date. Ma comunque io vi ho partecipato attivamente, come ha fatto Enzo Paci, finché gli studenti avevano ragione di protestare; poi, dopo il suo breve periodo, il Sessantotto si è trasformato in qualcosa di negativo, come è successo a molte rivoluzioni, in particolare a quella sovietica. Vorrei dire poi che il gusto cambia, è legato al momento e quello attuale non potrà mai essere di domani. Per cui, anche se vi confluiscono certe costanti politiche e sociali, rassegniamoci: oggi lodiamo il liberty dopo averlo trovato di pessimo gusto a metà Novecento; e prepariamoci a rivalutare domani i mobili post-liberty dei nonni, quelli che oggi non avremmo nemmeno il coraggio di adoperare. Già che ci sono, vorrei mettere anche una cattiva parola sulla nouvelle cuisine, un’ altra cosa che detesto. Ha ibridato le cucine regionali e nazionali, e io che le amo tutte - dalla siciliana alla ligure, alla piemontese - proprio come i dialetti, me ne sento privato. Cucina e dialetto danno gusto alla vita. Persino a Trieste sento il dialetto perdere forza. Secondo me, invece, la bellezza delle lingue locali dovrebbe convivere con l’ accento perfetto dell’ italiano, quello che per gli inglesi è il king’ s english. Altre cose che ho da dire? Che io continuo a sentirmi naturalmente di sinistra (anche se annacquata), ma oggi siamo in piena eclissi: speriamo che il sole annunci presto una nuova alba. Del pari: che certi vuoti umani sono incolmabili, come quello lasciato da una personalità straordinaria chiamata Adriano Olivetti, un tipo d’ imprenditore che ha saputo implicarsi in modo sanguigno nei problemi artistici, chiamando a collaborare architetti di estrema avanguardia come Figini e Pollini, ma sviluppando anche la macchina da scrivere e intuendo addirittura l’ avvento dei computer. Nella mia galleria dei personaggi preferiti metto persino Elisabetta d’ Inghilterra. (Sono riuscito a chiamarla ma’ am, secondo l’ etichetta, il giorno in cui mi ha interrogato sul disegno industriale). E anche Kissinger, conosciuto a Yale, simpatico e furbo. E Mies van der Rohe, il giorno in cui mi ha mostrato come l’ appartamento di un suo palazzo a Chicago, trasparente e luminoso, fosse stato trasformato in un antro buio e lugubre, oscurato da tende alte e spesse, per volere della sua proprietaria, vecchia ebrea viennese. E poi, nella mia galleria personale di oggi metto gli scrittori McEwan e Paul Auster, i migliori, perché riescono a iniettare nei loro libri tutta la negatività della nostra epoca. Mi accorgo qui di aver parlato troppo poco delle donne, dell’ importanza che per me ha sempre avuto, e continua ad avere, la loro bellezza. Il fatto è che è più piacevole parlare con loro, più che con qualsiasi uomo, perché, anche se si tratta di un primo incontro, c’ è nel dialogo con un’ anima e un corpo femminili, sempre, un aspetto vagamente sentimentale che mi affascina. Nessuno si aspetti da me, invece, particolari rimpianti. Salvo uno, veramente: quello di non essere riuscito a passare sei mesi in Giappone per impararne la lingua. La cultura giapponese mi affascina da sempre, ho anche cominciato a studiare la lingua da solo, però senza riuscire a continuare. Chiudo con un personaggio che non è artista né scienziato, ma veggente: il Mago Sili. Abita vicino al lago dell’ Accesa, non lontano da Massa Marittima. Pare che un po’ della sua forza - questo almeno dice lui - gli venga dalle tombe etrusche sepolte sotto casa. Un giorno vado a trovarlo e gli dico: per favore, non mi dica niente del futuro, mi liberi soltanto dal tormento dell’ erpes zoster. Troppo tardi, dice lui, doveva venire a trovarmi quando è cominciato, sei mesi fa (infatti era così). Poi mi guarda negli occhi e aggiunge: ha fatto bene a lasciar perdere quel che aveva iniziato. Cioè?, ho pensato. Poi ho capito. Certo, la mia laurea in medicina. Sì, ho fatto bene a dedicarmi a qualcos’ altro. Adesso ne ho la prova.
Gillo Dorfles (testo raccolto durante una conversazione con Gianluigi Colin e Dario Fertilio)