Eli Gottlieb, Il Sole-24 Ore 11/4/2010; S. Sa., Il Sole-24 Ore 11/4/2010;, 11 aprile 2010
TUTTI A SCUOLA DI OMOLOGAZIONE
Signori e signore, vorrei presentarvi un’anomalia letteraria americana: il sottoscritto. Romanziere americano a metà carriera che non ha un master in scrittura e non ha mai insegnato o è stato affiliato a un’università del suo paese. Per chi di voi non lo sapesse, è come vedere un ippogrifo che vaga per il centro di New York: non succede mai.
Fatemi il nome di un famoso autore americano degli ultimi trent’anni e vi illustrerò le sue credenziali accademiche: ha insegnato, o si è quanto meno laureato in "scrittura creativa", nella tale università. Ed è stato parte integrante di quel fenomeno culturale che ha dato il titolo a The Program Era ( Harvard University Press), il recente studio molto controverso di Mark McGurl. Il titolo si riferisce all’ascesa dell’impero accademico della scrittura creativa in America, un "colpo di mano" della rappresentanza culturale che, a dire di McGurl, sarebbe stato il fenomeno più significativo nella storia della letteratura del paese dal secondo dopoguerra in poi, cruciale per la fioritura letteraria americana degli ultimi cinquant’anni. Per capire se ha ragione, dobbiamo fare un passo indietro ed esaminare la situazione.
Diversamente dall’Europa, l’America è sempre stata una terra di letterati solitari. I suoi grandi autori "classici", – Emily Dickinson, Henry James, Walt Whitman, Herman Melville, Nathanael Hawthorne, persino William Faulkner ”, erano tutti stelle cadenti che attraversavano cieli di infinita, e per un europeo inimmaginabile, solitudine letteraria. A volte erano in gradito contatto con altri scrittori, ma gli Stati Uniti, specialmente agli inizi, erano privi di quel consenso culturale che venne spontaneo nelle civiltà del Vecchio Continente e che avrebbe permesso agli autori americani di scrivere con la consapevolezza di una vasta comprensione anteriore.
Ma come cambia il mondo! Adesso, quando un americano con delle inclinazioni letterarie si laurea e decide di prendere un master in scrittura creativa, viene risucchiato, proprio come Charlie Chaplin in Tempi moderni , dagli enormi ingranaggi di una macchina culturale precostituita e finalizzata a sfornare scrittori perfetti e industrialmente produttivi. In un certo senso, c’è poco di sorprendente. L’America applica indistintamente il modello industriale o istituzionale, a tutti i suoi prodotti, siano essi culturali o commerciali. Allora perché la scrittura dovrebbe essere diversa da un chip di silicio? Eppure, agli occhi di un europeo, il predominio di un’unica istituzione, l’Mfa ovvero il Master of fine arts program, sulla letteratura contemporanea americana, avrà sempre dell’incredibile.
L’"era del programma" ebbe ufficialmente inizio nel 1936, quando il Middlebury College del Vermont cominciò a rilasciare la laurea in "scrittura creativa". Dopo la Seconda guerra mondiale si diffuse in modo esponenziale e oggi sono ben 360 gli atenei americani che permettono agli studenti di dedicare due o tre anni (in genere sovvenzionati) a scrivere e a criticare i libri altrui. E tutto questo, sotto la guida di un professore, il cui unico merito è spesso quello di aver pubblicato un’opera prima, e anche ultima, in prosa o in versi. E quando finiscono, la priorità di questi studenti con la strada spianata verso la pubblicazione, grazie agli stretti rapporti che l’università mantiene con agenti ed editori newyorchesi, è quella di trovarsi un posto di insegnante per trasmettere la tecnica neoacquisita al prossimo gruppo di aspiranti scrittori.
Quest’enorme macchina culturalmente solipsistica, è stata sostenuta da una galassia di piccole riviste che, molto prima del democratizzante avvento di internet, ha offerto a tutti la possibilità di essere pubblicati. Avete un racconto sulla vostra passione per le lumache? Su come vivere per un anno dentro la propria automobile? Su come crescere da nana lesbica in Polinesia? Allora c’è la rivista che fa per voi! L’ultimo anello della combine letteraria americana è l’arcipelago di centri residenziali per artisti, ovvero quei luoghi raccolti, in genere sperduti e accuratamente arredati, dove scrittori e artisti americani hanno la possibilità di analizzare la propria autocommiserazione mentre affinano la propria arte (e fanno saltare i loro matrimoni, un effetto collaterale piuttosto comune quando non ci sono freni all’alcol, alla promiscuità e alla creatività), senza spendere un soldo o con un contributo minimo.
Come accade spesso in America, la storia apparentemente felice di questa democrazia letteraria partecipatoria e gridata, viene minata dalle depredazioni culturali più sottili che si verificano immancabilmente quando l’arte passa attraverso il sistema di mercato. E quelle depredazioni sono ancora più marcate quando l’arte in questione è proprio la letteratura, il cui locus classicus è sempre stato il suo ruolo di descrivere le differenze di classe e di status sociale. Nel caso dei corsi dell’Mfa, il risultato è un’esplosione di scrittori tecnicamente preparati, con le spalle coperte, e una spiccata tendenza a sembrare tutti uguali. Quest’omologazione produce, a sua volta, una cultura letteraria particolarmente sensibile alle tendenze (che costituiscono il termometro del mercato per antonomasia). Negli anni Settanta, sotto l’influsso di Raymond Carver, dilagò nelle aule una sorta di minimalismo, e d’un tratto tutti si sforzarono di scrivere una prosa molto malinconica che descriveva coppie senza futuro in squallidi contesti. Negli anni Ottanta fu il brat pack composto da Jay McInerney, Tama Janowitz e Bret Easton Ellis, a tenere il banco dell’Mfa. Ma, naturalmente, nulla nasce dal nulla, e così è stato anche per l’"era del programma", un piccolo spostamento all’internodi un movimento molto più ampio della cultura americana che dalle strade e dagli atelier è arrivata alle università, cominciato di fatto alla fine degli anni Cinquanta, e che da allora è andato sempre accellerando. Un tipico esempio è come le creative conversazioni nei caffé che diedero notoriamente forma agli albori dell’Espressionismo astratto e della New York School of Poetry, – uno scambio fra artisti, poeti, critici e tirapiedi di ogni genere che s’incontravano al Cedar Tavern, nel Village, tra la sfrenata democrazia dell’alcol e delle ore piccole ”, sembrino oggi appartenere all’era dei mammut. L’avanguardia è sempre un fenomeno spontaneo, ovviamente, e come molte cose spontanee, ha sempre un tempo di dimezzamento assai breve. Ma quella vasta, incontrollabile e iperfeconda impollinazione incrociata dei movimenti artistici su temi distinti, che una volta investì la parte bassa di Manhattan, non si verificherà più, proprio perché oggi il discorso sull’Arte, in America, è in mano all’Accademia e sopravvive più che altro per la sua capacità di elaborare distinzioni teoriche, che per il suo potere di spingere qualcuno a fare qualcosa, a parte una domanda di docenza.
Il professor McGurl è un fine pensatore a cui evidentemente piacciono i libri e gli scrittori, e a differenza di molti testi accademici che danno l’impressione di essere stati scritti per asservire una visione piatta e preformattata, The Program Era è il frutto di una penna felice e di accurate ricerche. McGurl fa un’analisi esaustiva del fenomeno degli Mfa e del loro impatto sulla vita americana, ma, a mio modo di pensare, giunge alla conclusione sbagliata. Lui ritiene che il "programma" sia stato fondamentale per lo sviluppo di una grande letteratura americana. Io penso, invece, che la letteratura americana del dopoguerra sarebbe stata ancora più straordinaria, coraggiosa, e importante, se avesse sottoposto i suoi scrittori agli imperativi darwiniani di credere nella propria arte, al punto di soffrire per lei, anima e corpo, anziché ingrassarli e sistemarli. Dopotutto, oggi in America, chiunque può fare il poeta o il romanziere. una scelta professionale, o ancora meglio, uno "stile di vita", i cui soli requisiti sono una modesta predisposizione per la parola scritta e un’attitudine a eludere quello che James Joyce definì «l’arduo compito di sbarcare il lunario» ( Gente di Dublino, traduzione di Daniele Benati, Feltrinelli, p. 43, ndt),
per sedersi tutti in cerchio a lisciare le reciproche sensibilità. Per dovere di trasparenza devo ammettere che anch’io ho provato a insegnare scrittura. L’ho fatto per qualche anno, in una piccola struttura di Denver, nel Colorado. Ma con la fondamentale differenza che il corso non gravitava nell’orbita dell’Mfa, non rilasciava lauree, e annoverava allievi perlopiù adulti. Da insegnante, ero felice quando gli studenti "trovavano" un lavoro e si dimostravano all’altezza. Credo di averli aiutati tecnicamente. Credo che sotto la mia guida abbiano fatto dei passi avanti sulla strada della sofisticazione letteraria. Ma non credo di poter dire di averli anche solo avvicinati al fare letteratura. Per me,l’unico modo di espugnare quel particolare castello è possedere davvero il dono della necessaria trinità, ovvero fegato, talento e volontà, senza il quale non c’è lezione o insegnamento che ti faccia varcare il fossato.
vero che i corsi dell’Mfa hanno prodotto una splendida costellazione di talenti letterari nel corso degli anni, con David Foster Wallace, Denis Johnson e Flannery O’ Connor,per farealcuni nomi perché potrei citarne a centinaia. Ma la grande scrittura ha un’ineluttabilità che le è propria e scommetto, anche se non posso dimostrarlo, che questi maestri si sarebbero fatti strada comunque. Quei pochi, intrepidi, animi eletti hanno sempre trovato il modo di non cadere nell’oblio e di passare alla posterità. Ma davanti alle quantità di libri che ogni anno piovono come cubetti di grandine dai corsi di scrittura, andando a cadere perlopiù su orecchie sorde – e presumibilmente ferite ”, la mia impressione è che con l’"eradel programma"le percentuali siano andate sempre più a favore di una letteratura effimera e usa-e-getta, e che i cassonetti del futuro traboccheranno di romanzi e libri di poesie dimenticabili ma scritti alla perfezione, con il temibile acronimo dell’Mfa che fa capolino dalle note biografiche degli autori. Eli Gottlieb • MA A SCRIVERE SI IMPARA - Contrariamente a quello che si pensa, a scrivere – un articolo, un saggio e anche un romanzo – si impara. Si può imparare. Fors’anche, si deve. E, premesso che non li abbiamo mai frequentati, i corsi di scrittura creativa non vanno demonizzati o guardati con sorrisi di sufficienza.
Certo, la situazione americana che denuncia Eli Gottlieb in questa pagina – e che, di certo, farà nascere qualche replica – non è paragonabile a quella italiana, dove i corsi di scrittura (quasi mai di ambito universitario) sono arrivati tardi e per lo più sono tenuti da maestri che in molti casi non padroneggiano con tutta evidenza le tecniche che pretendono di insegnare. Ci sono le dovute eccezioni: la Holden è un ottima scuola e tutto si potrà dire di Alessandro Baricco tranne che non sappia scrivere come dio comanda; le lezioni di Peppo Pontiggia erano distillati di saggezza rari. Fortunato chi vi ha assistito.
Eppure persistono sull’argomento due idee, altrettanto sbagliate. Quella che per scrivere un romanzo basti il talento e/o l’ispirazione (e non il duro lavoro, che è prima di tutto di riscrittura, ammesso che ci si accorga di averne la necessità; ciò che la maggior parte dei principianti nemmeno sospetta) e l’altra che nessuna scuola o corso potrà mai creare uno scrittore. Cosa lapalissiana. Ma, mentre stranamente nessuno si meraviglia quando si sente dire che i pittori sono sempre andati a bottega o che gli architetti lavorano sotto lo stretto controllo di colleghi già avviati, chissà perché i poeti (o presunti tali) spesso non si peritano nemmeno di conoscere l’abc della metrica o gli aspiranti romanzieri non distinguono un modo narrativo da un altro e si facciano beffe dell’uso comune (non quello avanguardistico) della punteggiatura. Ecco: forse dovremmo cominciare a pensare che i corsi di scrittura possano essere – per chi vuole lavorare con la scrittura o per chi le frequenta come passatempo o pura passione – degli ottimi laboratori nei quali apprendere i rudimenti tecnici. Finiti i quali corsi nessuno uscirà Balzac (e nessuno sano di mente lo pretende) ma almeno avrà qualche nozione in più. La più importante delle quali è sempre la stessa. Prima di mettersi a scrivere, imparare a leggere.
E farlo molto, molto spesso. S. Sa.