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 2010  aprile 11 Domenica calendario

IL SUDAN VOTA E VA VERSO LA SECESSIONE

Le prime elezioni democratiche del Sudan in un quarto di secolo, boicottate dall’opposizione e contestate dall’Unione europea che ha ritirato gli osservatori dal Darfur, potrebbero essere anche le ultime di questo paese. I sudanesi, a partire da oggi fino a martedì, sono chiamati a eleggere il presidente, il nuovo Parlamento e i governi locali. La riconferma alla presidenza del generale Hassan Omar el Bashir appare scontata ma questa è soltanto una tappa verso il referendum, previsto nel gennaio 2011, per l’indipendenza del Sud del Sudan, un nuovo stato nel cuore dell’Africa orientale. Il Sudan conosciuto finora, nato nel 1956, la nazione più grande del continente, si prepara dunque a una fine ingloriosa, nel caos e nella tensione.
Salito al potere con un colpo di stato nell’89, colpito da un mandato d’arresto della Corte penale internazionale dell’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati in Darfur, Omar Bashir tenta di riguadagnare legittimità sbandierando i grandi progetti (una diga, una strada e una raffineria)realizzati con l’aiuto dei cinesi che, puntando alle commesse e alle concessioni petrolifere, da qualche anno tengono in piedi il generale e l’esercito di Khartoum.
Ma questo è un paese ormai lacerato: squassato per oltre vent’anni dalla guerra tra il nord, arabo e musulmano e il sud, africano e cristiano, un conflitto con due milioni di morti concluso dagli accordi di Nairobi del 2005 ma con gli strascichi del contenzioso per la spartizione dei giacimenti di petrolio. Poi è venuta la guerra del Darfur dove i combattimenti si sono rarefatti ma che rimane uno dei peggiori disastri umanitari del pianeta: tre milioni di persone sono rifugiate nei campi profughi, altri 4 milioni sopravvivono soltanto grazie agli aiuti del Programma alimentare mondiale. Secondo le stime dell’Onu un milione di persone, colpite dalla siccità e dai cattivi raccolti, potrebbero morire di fame. Bashir è considerato il responsabile di questi fallimenti sanguinosi e tutti i suoi maggiori concorrenti si sono ritirati accusandolo di brogli e manipolazioni.
Al sud snobbano il voto ma non vogliono un rinvio delle elezioni perché hanno soltanto fretta di arrivare al più presto al referendum e sfruttare le risorse petrolifere. Il Sudan meridionale, con capitale Juba, è un paese che per decenni non ha conosciuto altro che guerra e miseria. In compenso la pista che da Lockinoggio, ai confini del Kenya, penetra in Sudan è un percorso di bellezza quasi abbagliante, con tratti di aperta savana intervallati da picchi montuosi di roccia nera che tornante dopo tornante contrastano con il verde intenso della vegetazione.
Le acque del Nilo, più del petrolio, per ora sono la vera ricchezza dei Nuba e dei Dinka, in uno stato che sarà grande due volte mezza l’Italia con una popolazione inferiore ai 10 milioni di abitanti. nel sud del Sudan che si trova il rubinetto del Nilo Bianco, alimentato dalle piogge tropicali e dall’apporto degli affluenti: l’indipendenza significa dover rinegoziare con un nuovo paese le quote dell’acqua che garantiscono la sopravvivenza dell’Egitto e del Sudan. Ma intanto Juba, dove intorno al mausoleo del capo della guerriglia John Garang è sorto il più grande mercato della regione, è la meta più frequentata dagli oil men delle multinazionali, cinesi compresi.
La corsa al petrolio e alle risorse naturali sta ridisegnando la carta dell’Africa orientale lungo il corso del Nilo fino alla regione dei Grandi Laghi. Nuovi stati stanno per nascere mentre riaffiorano sulla mappa regioni dimenticate: un sommovimento di questa portata forse non accadeva dall’epoca della decolonizzazione.
I pozzi di oro nero stanno scavando in profondità nella storia recente e nel futuro di questa regione.
Accettata malvolentieri dal governo sudanese con gli accordi stipulati con l’Splm (Sudan people liberation movement), l’eventuale separazione del sud ha come posta in gioco la regione di Abyei nel cui sottosuolo è custodito il 70% del petrolio e dove passa il futuro confine tra il nord e il sud. Una parte dei giacimenti sono già collegati con una pipeline di 1.600 chilometri a Port Sudan sotto il controllo di Khartoum. Il Kenya invece offre al futuro governo di Juba di portare il petrolio a Mombasa dove sulla costa si affaccia la maggiore raffineria dell’Africa orientale.
L’oro nero deciderà anche il destino dei trenta milioni di abitanti dell’Uganda. Il giacimento più importante, il più grande scoperto a sud del Sahara negli ultimi vent’anni, si trova nella valle del Lago Alberto, uno dei più grandi bacini africani, dove è stata appena annunciata una joint venture tra la francese Total, i cinesi della Cnooc (China national offshore oil) e gli irlandesi della Tullow: sono previsti investimenti per 10 miliardi di dollari. La Tullow si è assicurata le licenze, a cui aspirava anche l’Eni, della Heritage Oil, la compagnia canadese fondata da Tony Buckingham, ex ufficiale delle britanniche Sas, un mercenario che negli anni ’90 ha accumulato una fortuna con il petrolio dell’Angola e i diamanti africani.
Ma i pozzi da esplorare appartengono al territorio del Bunyoro-Kitara, uno dei regni più antichi dell’Africa orientale. Aboliti con l’indipendenza alla fine degli anni Sessanta, i regni ugandesi sono tornati in auge con il presidente Yoweri Museveni e ora reclamano una fetta della nuova ricchezza petrolifera. Rivendica i suoi diritti sull’oro nero anche il vicino regno del Buganda, il più grande e potente, che comprende, oltre al Lago Vittoria, sia la più antica capitale del paese, Entebbe, che quella nuova, Kampala.
Al potere da un quarto di secolo, Museveni il prossimo anno dovrà affrontare le elezioni e per vincerle avrà bisogno del sostegno del Buganda, tre milioni di persone, il maggiore gruppo etnico dell’Uganda, governato dal re Muwenda Mutebi II, monarca costituzionale che dispone di un Parlamento, una pletora di ministri e 56 clan. I recenti scontri in Buganda tra le forze di Kampala e i sostenitori del sovrano preludono a ulteriori tensioni. Forse per questo Museveni, che non vuole fare la fine di Bashir, ha nominato il figlio, Muhozzi Kainerugaba, comandante di una speciale unità dell’esercito che farà la guardia ai pozzi di petrolio: lungo i 6.700 chilometri del Nilo, un bacino che interessa una dozzina di paesi, dal Sudan ai Grandi Laghi, si sta disegnando la nuova mappa del potere politico ed economico dell’Africa orientale.