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 2010  marzo 25 Giovedì calendario

MATRIMONI GAY IN ATTESA DI UN SI’


Per 16 anni Massimo e Luca hanno condiviso tutto. Una coppia felice come decine di amici etero. Con un solo dispiacere: "I genitori di Max non sono mai venuti a trovarlo qui a Milano, dove s’era trasferito dal Sud per studiare all’università. Non condividevano la sua scelta, non accettavano un figlio gay", racconta Luca. Loro non ci facevano nemmeno più caso, a quarant’anni compiuti. Consulente finanziario il primo, architetto il secondo. Avrebbero voluto andare in Comune, davanti al sindaco con la fascia tricolore, per farsi dichiarare ’marito e marito’. Un sogno, stroncato a gennaio da una telefonata: Massimo s’è sentito male al lavoro, non respira, sembra gravissimo. "Mi è caduto il mondo addosso, sono corso in ospedale, ma quando sono entrato al Pronto soccorso mi sono sentito dire: ’Scusi, lei chi è?’". I medici non gli hanno comunicato nulla sulle condizioni del compagno. E la ragione è semplice: "Lei non è un famigliare". Ore di ansia e rabbia trascorse in sala d’aspetto a consumare le suole. E finite nel peggiore dei modi. "Quando il primario mi ha visto piangere, mi ha concesso di entrare. E ho capito che era già tardi". Il suo Max, tutto quello che aveva al mondo, non c’era più. Stroncato da un ictus in meno di tre ore: "Per me la vita è finita lì, ma il dramma era appena cominciato. L’appartamento era intestato a lui, come la nostra automobile e tutto il resto". Ecco che i genitori sono riapparsi all’improvviso. E si sono portati via tutto. Lasciando Luca solo e disperato.

Sono le coppie negate. Le famiglie invisibili. Gay, lesbiche ma anche eterosessuali. Vivono insieme, lavorano e pagano le tasse insieme. Eppure per lo Stato non esistono. Non c’è una legge che tuteli quei legami d’amore. Non c’è un istituto giuridico che regoli quelle convivenze. Le hanno provate tutte: proposte di legge, dibattiti in tv, scioperi della fame. Come quello di Francesco Zanardi e Manuel Incorvaia per spingere il Parlamento a decidere. La politica, però, non ha ascoltato nemmeno quel grido. Promesse, trattative, mediazioni fra paure omofobiche a destra, equilibrismi a sinistra, veti cattolici sparsi dappertutto. La speranza dei Pacs, il miraggio dei Dico e alla fine un pugno di mosche. Almeno fino a oggi. A dispetto delle leggi che non arrivavano, la cosiddetta ’via legale’ ha portato invece a una svolta. Una trentina di coppie omosessuali si sono presentate in Comune per le pubblicazioni di matrimonio. La risposta è stata sempre la stessa: "La legge lo vieta". Ma quel foglio di carta è bastato per ricorrere al giudice. Così è stato a Ferrara, Venezia, Trento e Firenze, i quattro tribunali italiani che hanno sollevato il caso alla Corte costituzionale: "Privare qualcuno della possibilità di fondare una famiglia in ragione dell’orientamento sessuale lede la sua dignità", scrivono i magistrati. Ora l’ultima parola spetta alla Consulta, che si riunirà il 23 marzo. Per decidere se in Italia anche gay e lesbiche possano pronunciare il fatidico: "Sì, lo voglio".

Per Lorenzo Biagini e Paolo Sordini quella sarà una data speciale. "La nostra storia è cominciata durante una manifestazione che portò in piazza oltre un milione di persone per difendere l’articolo 18. Era proprio il 23 marzo di otto anni fa. Quindi è il nostro anniversario", raccontano.

Vite normali. Con problemi speciali. Uno su tutti: abitano a Roma nella casa di Paolo, mentre Lorenzo ha affittato il suo appartamento per arrotondare gli stipendi di impiegato e dipendente Rai. Ma per la legge non può esserci comunione dei beni. Per cui se uno dei due morisse, l’altro perderebbe la seconda casa. Roberto Zacheo è un ingegnere di 49 anni. nato in un piccolo paese in provincia di Lecce, ha studiato a Pisa, poi è salito a Milano. Al Piccolo teatro ha conosciuto Riccardo Perelli Cippo, 51 anni, medico geriatra. Quando si sono presentati all’Anagrafe un dipendente di Palazzo Marino s’è premurato di far sentire a tutto volume la suoneria del cellulare, che intonava ’Faccetta nera’. "Nella realtà quotidiana la nostra famiglia non esiste. Ogni volta ci dobbiamo appellare al buon cuore di medici, avvocati, uffici pubblici. umiliante. Tre anni fa abbiamo comprato una macchina e non abbiamo potuto pagare a metà da due conti diversi", raccontano. Così hanno cercato delle tutele. A differenza di Max e Luca hanno fatto testamento, ma nemmeno questo basta a garantire su beni e risparmi. "In caso di morte la liquidazione andrebbe alla famiglia naturale. Tutto il resto verrebbe tassato come un lascito a un perfetto estraneo. L’altro dovrebbe pagare il 60 per cento di tasse sulla nostra casa, sui risparmi di una vita, su tutto quello che abbiamo costruito insieme. assurdo".

 difficile stabilire quanti siano. L’Istat non inserisce le unioni gay nel censimento nazionale. Al punto che l’associazione radicale Certi diritti ha lanciato una petizione per chiedere al presidente dell’istituto di statistica, Enrico Giovannini, di modificare i questionari. Chi ha scattato una fotografia aggiornata, però, c’è. la Linfa, la lega italiana nuove famiglie. Secondo il presidente Alessandro Zan a febbraio erano oltre 870 mila le coppie di fatto nel nostro Paese, fra etero e omo. Un bel salto rispetto alle 240 mila censite nel 1994. "Di queste circa 200 mila sono convivenze stabili fra persone dello stesso sesso. La capitale delle coppie gay è Milano, poi vengono Roma, Padova, Venezia. Al Sud ci sono Bari e Catania", spiega Zan.

A Torino, Antonella D’Annibale, 45 anni, impiegata del Comune, convive da anni con la compagna Debora Galviati Ventrella, 44 anni, educatrice in una cooperativa. Sono lesbiche ed entrambe femministe sfegatate. "Non so a quante manifestazioni contro il matrimonio abbiamo partecipato, ma adesso capisco che sbagliavamo. Io ho tre cugini in giro per il mondo che non vedo da anni e non so nemmeno dove vivano: pensare che la roba mia e di Debora finisca a quei tre mi fa andare in bestia", racconta Antonella. Proprio loro che per vedersi riconoscere come famiglia hanno invitato il sindaco Sergio Chiamparino alle nozze, senza valore legale, celebrate lo scorso febbraio fra le polemiche del Pdl e l’anatema del cardinale Severino Poletto. "A Debora la coop ha concesso il permesso matrimoniale, a me invece il Comune ha risposto che, nonostante ci fosse il sindaco, la legge lo vieta. Così niente viaggio di nozze. Il mio sogno è partire il 24 marzo".

A dare voce all’Italia delle unioni fantasma sono stati Sergio Rovasio di Certi diritti e l’avvocato Francesco Bilotta della rete Lenford, un gruppo di legali impegnati a tutto campo nella tutela dei gay. Sono loro che hanno aperto un varco fra codici e cavilli fino alla Consulta: "Nessun diniego dei Comuni su cui abbiamo formulato i ricorsi portava riferimenti di legge tali da rendere davvero impossibile contrarre il matrimonio", spiega il portavoce di Lenford, Antonio Rotelli. Un dibattito inedito nel nostro Paese, su cui il gruppo Amicus curiae dell’Università di Ferrara ha raccolto il 26 febbraio oltre 200 contributi di giuristi. "Alla vigilia dei pronunciamenti della Consulta invitiamo sempre gli interessati a un forum e poi trasmettiamo tutto ai giudici", spiega il costituzionalista Roberto Bin. Quattrocento pagine che affrontano le varie facce del problema. E i risvolti di quelle discriminazioni. Tante. Subdole. Diverse, ma ugualmente insidiose. I casi più delicati sono quelli in cui c’è di mezzo un figlio. Come Isotta, che ha due mamme. Va all’asilo con mamma Elena, la passa a prendere mamma Marina. Ha tre anni e l’8 marzo ha portato a casa due disegni: "Le maestre sono state davvero sensibili con nostra figlia". Vorrebbero gridare la loro rabbia per non potersi sposare. Metterci la faccia. Ma temono ripercussioni sulla bambina. per questo che hanno chiesto l’anonimato. Vivono in Piemonte. Sono felici con nonni e amici attorno. Hanno un buon lavoro e una casa di proprietà. Ma quando Isotta ha qualche problema, per le istituzioni è come per il proverbio: la mamma è una sola. Marina e i pannolini cambiati, i biberon, la ninna nanna cantata ogni sera non esistono improvvisamente più. Il sorriso di Isotta non conta.

Così come non ha valore la relazione fra quelle donne di 40 anni che dall’inseminazione artificiale hanno visto arrivare il regalo più bello. Una bimba che poteva nascere nell’altro grembo: "Mi sento invisibile, in tutte le circostanze famigliari io scompaio. Siamo uno Stato fondato sulla famiglia, io ne ho una ma non è riconosciuta, perché non ho un coniuge", si sfoga Marina. anche la storia di Raphaelle e Giuseppina in un paesino dell’Avellinese. E di centinaia di altre coppie. Le chiamano famiglie arcobaleno e spesso i figli arrivano dalla ’vita precedente’. Come nel caso di Andrea. Ha 42 anni, si è innamorato di Filippo dieci anni fa, dopo il divorzio dalla moglie. Sua figlia ha sempre chiesto di stare con il padre e il giudice, primo caso in Italia, dopo mesi di accertamenti ha acconsentito. Così la famiglia s’è allargata e oggi Grazia vive in Veneto con due papà. "Quando mi sono ammalato di tumore, però, Filippo ha trasferito l’ufficio in ospedale per starmi vicino. Per farlo abbiamo sottoscritto una famiglia anagrafica, come è possibile fare nel nostro comune. Significa un unico stato di famiglia. Non è molto, ma è un passo avanti. Peccato che da quel giorno temiamo che portino via la bambina".

Se ti innamori di uno straniero i problemi raddoppiano. Le coppie riconosciute nell’Unione europea svaniscono non appena varcano il confine italiano. "Con la beffa che un cittadino comunitario può risultare al tempo stesso sposato in certi Stati, celibe o nubile in altri, addirittura clandestino nel nostro Paese", spiega il responsabile dell’area legale dell’Arcigay, Alberto Baliello. Caso esemplare quello di Roberto Taddeucci, 45 anni, e del compagno neozelandese Doug McCall di 52. "In Nuova Zelanda abbiamo sottoscritto l’unione civile e io avevo il permesso di soggiorno per motivi famigliari", racconta Roberto. Poi la decisione di tornare in Italia. Con un epilogo giudiziario: "Il governo Berlusconi stava modificando in quei giorni la legge sull’immigrazione. Così Doug non solo non ha avuto il permesso, ma rischiava l’incriminazione. A mia madre, che ci ospitava a casa, potevano dare fino a tre anni di carcere". L’unica strada è stata la fuga all’estero. In Olanda, dove in sei settimane i documenti sono tornati a posto. Adesso Roby e Doug si considerano in esilio. E chiedono al Parlamento di poter tornare a Roma. Nella città dove entrambi hanno un lavoro. Una casa. E una famiglia. Anche senza i timbri e i bolli ufficiali.