Umberto Minopoli, 06/04/2010, 6 aprile 2010
SIGNORE ATOMICHE - C’è
una strana genealogia nella fisica dell’atomo. E’ una traccia curiosa che percorre la storia della più potente risorsa di energia: un suo inaspettato lato femminile. Si tratta di fisiche geniali, donne che hanno visto più in profondità degli uomini. Quasi mettendo in luce una facoltà intuitiva che ha un’impronta di genere. Nella storia del nucleare tutto ha inizio, com’è noto, da una formula fortunata: E=mc2, ”la massa di un corpo è una misura del suo contenuto di energia”. Einstein la presentò quasi con noncuranza, nel settembre del 1905, solo come una ”sorprendente” e, quasi divertente, conseguenza dei suoi articoli sulla relatività. La vera e intrigante novità dell’equazione, tuttavia, stava non tanto nella formula ma nel numero. Quel due che moltiplicava alla doppia potenza la velocità della luce (c) per la massa (m) del corpo dava un numero fantastico, incommensurabile, impensato: un chilo di materia, se si convertisse interamente in energia, darebbe un prodotto pari a 25 miliardi di chilowattora.
Passeranno quarant’anni da quell’affermazione curiosa di Einstein ma la formula si invererà dando inizio all’epoca dell’energia nucleare. E tuttavia all’origine dell’equazione più importante della storia della scienza non c’è Einstein ma la straordinaria intuizione di una donna: Gabrielle milie le Tonnelier de Breteuil (1706-1749), nota come marchesa di Châtelet. E’ a lei che si deve la scoperta fondamentale, il disvelamento di una curiosa proprietà della natura: la legge del quadrato. Nel castello di Cirey, nel nordest della Francia, di proprietà del ricco marito, milie du Châtelet curò, in particolare, due realizzazioni: un passaggio segreto che collegava la sua camera da letto a quella dell’innamorato Voltaire e la costruzione di una grandiosa libreria, affrescata da pitture di Watteau. In essa la coppia di amanti più famosa della storia dei Lumi ravvivò un cenacolo intellettuale senza precedenti. La marchesa di Châtelet, inquieta ed esuberante, coltivava relazioni segrete e numerose che portavano alle lacrime l’altero Voltaire. Ma nel laboratorio ricavato in un’ala della libreria milie era interessata, soprattutto, a esperienze culturali e scientifiche straordinarie. Una di esse riguardava la soluzione di un dilemma che l’avrebbe posta, addirittura, come arbitro in una disputa secolare che aveva, tra le altre, diviso Newton e Leibniz: come si misura l’energia di un corpo che si muove?
Era un interrogativo che sconfinava nella cosmologia e nella teologia. La tesi di Newton, delle cui opere milie si era votata alla divulgazione, era che l’energia di un corpo in movimento andava calcolata moltiplicando semplicemente la massa di tale corpo per la sua velocità (E=mv). Era intuitivo, di senso comune, eppure sbagliato. E sarà milie du Châtelet a metterlo in chiaro. Nel ragionamento di Newton c’era qualcosa che disturbava e non si spiegava: se fosse come lui dice, si chiedeva milie, la quantità di energia in gioco risulterebbe troppo piccola. L’universo e il mondo avrebbero troppo poca energia per continuare a girare. Essi dovrebbero consumarsi, affievolirsi, scaricarsi progressivamente. E invece tanti segni dicono, rifletteva milie, che l’energia in gioco è tanta. Il Dio di Newton aveva sbagliato i calcoli della quantità di energia da regalare al mondo. E, infatti, come un buon orologiaio interveniva di continuo a correggere l’errore e ricaricare l’universo. Il Dio di Leibniz, al contrario, era stato generoso e aveva fornito al mondo una sufficiente e robusta riserva di energia. La risorsa, insomma, non è affatto limitata: l’energia si trasforma, cambia aspetto ma si conserva e consente all’universo di continuare a girare. E’ evidente, concludeva milie, che la quantità di energia in gioco è più grande di quella che pensa Newton! La formula di Newton andava corretta: da mv in mv2. L’energia contenuta nella massa di un corpo in moto, dunque, non è pari al semplice prodotto della massa per la velocità ma a quella della massa per il quadrato della velocità. milie aveva enunciata, per prima, la più misteriosa e intrigante delle leggi di natura: quasi tutto quello che nell’Universo ha a che fare con l’energia, la velocità, la crescita costante, i corpi in movimento si misura con quantità al quadrato. E’ dalla scoperta di milie du Châtelet, un’intuizione a cui il genio di Newton non si era neppure avvicinato, che parte la genealogia di E=mc2. La ”sorprendente” equazione di Einstein sarebbe rimasta, però, un semplice calcolo teorico, un gioco intellettuale senza conseguenze se, qualche anno prima di quello ”mirabile” degli scritti sulla relatività, non si fosse affacciata un’altra scoperta: che in natura, e dunque nella materia di cui è fatto il mondo, esistono elementi strani che mostrano un comportamento singolare e imprevisto. Sarà una donna a metterlo in chiaro e a chiamarlo radioattività.
Manya Sklodowska (1867-1934), per la storia Madame Curie, aveva due handicap: polacca e donna. Insopportabile per lo spietato regime zarista che dominava su parte della Polonia. E perciò tutto il suo corso di studi in patria si svolse in singolari istituzioni scolastiche clandestine chiamate, in inglese, Floating University. Fino a quando, senza titoli scolastici ufficiali, fu accolta a Parigi nella prestigiosa Sorbonne e in soli tre anni conseguirà due master in Fisica (con il grande Becquerel) e in Matematica. Si dice che per molti anni il suo abito blu di nozze con Pierre Curie sia servito come tuta da lavoro nel laboratorio, una vecchia stanza di dissezione anatomica ricavata, per lei e per Pierre, nella Scuola municipale di Fisica e chimica. Nel ”casotto miserabile”, come veniva chiamato, Manya decise di affrontare il tema che inquietava la scienza europea di fine secolo: la natura dei misteriosi raggi invisibili scoperti da Röntgen, Thomson e Becquerel. Seguendo l’ indirizzo di ricerca di quest’ultimo concentrò il suo lavoro sulla catalogazione delle strane proprietà di un intrigante elemento: l’uranio. Ciò che la turbava era il fatto che in qualunque condizione fisica si trovasse – intero, ridotto a polvere, esposto alla luce o coperto e all’oscuro – l’uranio mostrasse un unico e immancabile comportamento: emanava gli enigmatici raggi. Dunque, ragionò, non era a un apporto esterno di radiazione o energia che si doveva tale caratteristica dell’elemento uranio! Era una proprietà dell’uranio stesso, per una sorta di misteriosa sorgente interna, la capacità di irraggiare.
Come un minatore, Manya si mise a indagare a mani nude in chilogrammi di plechbenda, il minerale da cui l’uranio veniva ricavato. E giunse a una scoperta significativa: nelle vene di plechbenda l’uranio non era il solo elemento radioattivo. Altri ne trovò: torio, polonio (in onore alla sua terra), radio. Ma ciò che la inquietava era un pensiero: tutti quegli elementi radioattivi sembravano essere facce diverse e successive dello stesso elemento originario. Era come se l’uranio, il più pesante di tali elementi, trasmutasse spontaneamente e si decomponesse diventando, volta a volta, un elemento diverso. Con Manya la fisica era giunta alla penultima verità dell’atomo: il decadimento, la strana proprietà di vari elementi in natura di disintegrarsi e trasformarsi… liberando energia.
Dopo Manya la fisica impara non solo che la massa di un elemento, come dirà Einstein, è nient’altro che energia rappresa (e in una misura quantitativamente sbalorditiva), ma anche che l’equazione che ne è alla base (E=mc2) non è un astratto calcolo matematico ma un fatto osservabile: Manya aveva trovato elementi che irraggiavano e convertivano, in tal modo, massa in energia entro i limiti pazzeschi dell’equazione di Einstein.
Penultima verità, abbiamo detto. L’ultima porta del mistero restava quella di spiegare cosa avveniva, realmente, all’interno dell’atomo radioattivo: quale meccanismo concreto consentiva la liberazione di energia e la trasmutazione dell’uranio in altri elementi? La scienza doveva, perciò, scendere nel cuore dell’atomo per indagarne l’architettura interna. Doveva esplorarne la natura intima per darsi ragione dello strano comportamento dell’uranio messo in luce da Manya. Rutherford e Niels Bohr, il padre della fisica quantistica, apriranno le porte dell’atomo. E lo disveleranno come un aggregato nient’affatto semplice e banale. Fatto di un durissimo nucleo interno (neutroni e protoni) e di una periferia nebulosa di altre particelle, gli elettroni. Nel nucleo dell’atomo tutto (protoni e neutroni) si tiene, non si sfalda e rende possibile l’esistenza della materia grazie a legami interni e collanti di intensità inaudita: pura energia ma dalla forza inimmaginabile. Ma allora come si spiega il fenomeno che Manya aveva chiamato radioattività? E’ questa l’ultima verità dell’atomo. E nel percorso verso di essa incontreremo ancora due donne.
Irène Curie (1897-1956) aveva deciso di essere la naturale continuità di sua madre e non solo nelle sorprendenti similarità delle loro caratteristiche fisiche. Tutto sembrava riprodurre in Irène la storia di Madame Curie. Come Manya con Pierre, il suo lavoro di scienziata si identificò con il suo stesso matrimonio. Litigò per anni, per gelosie professionali, con un giovane studente, Frédéric Joliot, assunto in laboratorio da sua madre. Alla fine, stanca dei litigi, finì per sposarlo. Come Marie con Pierre, Irène riesce a votare l’interesse di Frédéric al suo assillo: svelare il mistero della radioattività, del meccanismo con cui la natura libera energia dall’atomo. Grazie ai Curie, la fisica aveva ormai chiaro un punto: ci sono elementi in natura, primo tra tutti l’uranio, in cui le forze invincibili di legame scoperte da Bohr a difesa della compattezza del nucleo dell’atomo sembrano non tenere. In questi elementi troppo pesanti (con talmente tanti neutroni e protoni) la disgregazione sembra vincere sul legame. Le particelle di cui è composto il nucleo di tali elementi sembrano volare via. L’atomo si disgrega, emette energia. E si trasforma in elementi diversi. Irène, come altri giovani fisici europei a Roma, Berlino o nelle università inglesi e americane, cominciava però anche a intuire una possibilità: quella non solo di spiegare come la natura fa a liberare energia dagli elementi radioattivi ma a cercare di imitarla. Insomma imparare, dalla natura, il segreto della liberazione di energia a buon mercato: il più antico e naturale desiderio della specie. Così Irène, agli inizi degli anni Trenta, avvierà un duello intellettuale e una corsa sul tempo con un giovane genio italiano, Enrico Fermi, che a Roma si poneva le sue stesse domande e tentava gli stessi esperimenti: riprodurre articialmente in laboratorio la trasformazione dell’atomo di uranio in altri elementi.
Nel gennaio del 1934, Irène Curie segnerà un primo punto a suo favore annunciando, su Nature, il successo di un esperimento senza precedenti: bombardando un foglio di alluminio con particelle originate da polonio aveva causato una radioattività indotta nell’alluminio. La stessa cosa succedeva, affermava Irène, con altri elementi esposti alla stessa radiazione. E’ una svolta epocale: per la prima volta l’uomo, anzi una donna, aveva imitato la natura. Ma una seconda e più importante sfida sarà vinta dalla scienziata francese che segnerà la vera tappa di avvicinamento alla chiarificazione del ”mistero nucleare”. Un fisico inglese, James Chadwick, aveva scoperto che nel nucleo dell’atomo, insieme ai protoni, di carica elettrica positiva, altre particelle di carica neutra contribuivano a tenere insieme il nucleo. Questa enigmatica particella sarà chiamata, appunto, neutrone. E svelerà sorprendenti proprietà se usata come proiettile con cui colpire dall’esterno il nucleo per indurre la radioattività. Grazie alla neutralità di carica elettrica, infatti, i neutroni riuscivano a vincere la forza di repulsione delle particelle del nucleo e a non essere respinti dai protoni. Penetrando senza problemi nel nucleo i neutroni potevano indurre trasformazioni osservabili in laboratorio.
Fermi e Irène si sfidarono nello stesso geniale esperimento: bombardare nuclei di uranio con proiettili formati da tali particelle neutre. E vedere cosa accadeva. Entrambi registrarono una conseguenza evidente: il bombardamento del nucleo dell’uranio con i neutroni dava luogo a elementi diversi della tavola periodica. Ma Irène sopravanzò l’italiano nella decriptazione di tali elementi. Fermi si sbagliò e Irène colse il bersaglio. Il genio italiano pensava di aver creato, con il bombardamento di neutroni, nuovi elementi più pesanti dell’uranio e successivi ad esso nella scala periodica (transuranici). Era in errore. Irène colse, invece, nel segno: il bombardamento di neutroni causava, a sorpresa, elementi non più pesanti ma più leggeri dell’uranio. Avveniva qualcosa di grandioso e inaspettato: invece di crescere di dimensioni e di massa, l’atomo colpito dai neutroni si alleggeriva. Come era possibile? Il senso comune era ancora disposto ad accettare la possibilità che sparando proiettili di neutroni nel nucleo questo li potesse assorbire. E così crescere di massa e dimensioni come pensava Fermi. Ma Irène dimostrava il contrario: una diminuzione di massa e di peso degli elementi generati dal bombardamento, una cosa che nessuno aveva pensato possibile.
Ma allora: che cosa veramente succedeva nel bombardamento con i neutroni? Che ne era della massa perduta? E’ sorprendente: a questa ultima domanda sarà una donna a dare la risposta definitiva. Lise Meitner (1878-1968), ebrea austriaca, diede quella risposta al nipote Otto Frisch scarabocchiando appunti nella pausa di una passeggiata nel bosco del villaggio svedese di Kungälv, nel giorno di Natale del 1938. Per vent’anni era stata, con Otto Hahn, fisica teorica in Germania. Poi l’orrore nazista l’aveva costretta alla fuga. L’idiozia hitleriana non riuscirà mai a calcolare il prezzo di quella perdita. Alla fine del 1938 il puzzle dell’ultimo segreto dell’atomo inquietava la fisica europea e americana. Nessuno riusciva a dipanare quell’ultima domanda: perché dalla collisione del neutrone con il nucleo di uranio nasce un elemento più leggero di quest’ultimo? Era l’ultimo schermo tra l’uomo e la più promettente fonte di energia individuata. La fisica europea e americana si arrovellava nel tentativo di dare una risposta. Ma invano. La fisica della relatività era nata da quelli che Einstein chiamava ”esperimenti mentali”. Con svolazzi e raccontini – tra orologi, cadute dal tetto di una casa e treni in movimento – Einstein aveva posto le fondamenta della più colossale rivoluzione della storia della scienza.
Ebbene la svolta definitiva della scoperta del nucleare, la più colossale rivoluzione della storia dell’energia, nasce da un analogo ”esperimento mentale” di una grande fisica teorica costretta, dalla violenza degli uomini, a stare lontana dai suoi strumenti di laboratorio. Con la sola forza dell’immaginazione, Lise troverà la risposta che nessuno osava pensare al dilemma ultimo dell’atomo. Disegnò su un foglio di carta un cerchio. Rappresentava il nucleo dell’atomo di uranio. Colpito dal neutrone, il cerchio si allungava, come una goccia d’acqua, e si assottigliava al centro fino… a spezzarsi in due cerchi. Era stato Bohr a intuire il ”modello a goccia” come rappresentazione del nucleo di un atomo. Ma solo Lise capì che quella goccia poteva spezzarsi se colpita nel modo giusto. E rilasciando un’energia immensa.
E così a quarant’anni dalle scoperte di Madame Curie, la storia della radioattività si chiudeva con un’altra donna che ne svelava definitivamente il mistero. In fondo non c’era mistero alcuno. Quelle donne avevano svelato una fisica, alla fin fine, semplice: un nucleo di uranio, composto di numerose particelle, è come una goccia d’acqua tremolante. Ove colpito dall’esterno da una particella analoga a quelle in esso contenute, si spezza in due. La fissione che avviene non produce solo due nuovi nuclei più piccoli al posto di uno ma, anche, energia sotto forma di calore. E’ questo calore che l’uomo imparerà a sfruttare per far girare una turbina elettrica. Tutto qui. L’ultimo mistero era, finalmente, spiegato. C’era voluto un tempo immemorabile per capirlo. Ma alla fine molto si deve a quattro donne straordinarie.