ALESSANDRO PENATI, la Repubblica 10/4/2010, 10 aprile 2010
IL FALSO PROBLEMA DI BORSA ITALIANA
Le dimissioni di Massimo Capuano da Borsa Italiana e dal Board del London Stock Exchange (Lse) hanno riaperto le polemiche sulla fusione: avremmo "svenduto" agli inglesi i nostri mercati, incluso quello dei titoli di stato MTS, accettando un´operazione servita a salvare la poltrona di Clara Furse, Chief Executive (Ceo) di Lse, entrata nel mirino dell´americana Nasdaq. L´operazione sarebbe stata voluta dai manager italiani per tutelare i propri interessi; avallata dalle banche italiane, socie di rilievo (col 18%, assieme a Dubai e Qatar, col 21% e 15%) ma incapaci di "fare sistema" ed esercitare il controllo. La fusione avrebbe poi affossato il progetto di una Borsa Europea.
Siamo alle solite: guardiamo ai mercati dei capitali con un´ottica distorta e provinciale, che contribuisce alla nostra marginalizzazione finanziaria.
Lo sviluppo dei mercati è dettato da quello degli investitori, sempre più istituzionali e globali: una parte sempre più grande della ricchezza finanziaria mondiale affluisce a investitori istituzionali di dimensioni sempre maggiori, che investono in un´ottica sempre più globale. Questo accade anche in Italia: buona parte del nostro risparmio finanziario liquido è investito in attività estere (indirettamente attraverso gestioni, fondi, Etf, obbligazione strutturate, polizze vita); quasi metà del debito pubblico italiano e quote rilevanti del flottante delle maggiori società sono detenute da investitori stranieri. Il connotato nazionale delle borse sta perdendo significato: inevitabile la loro aggregazione in multinazionali capaci di offrire servizi di negoziazione globali, su un ampio spettro di attività (non solo azioni), a basso costo, in competizione con le piattaforme elettroniche di negoziazione costituite dalle maggiori banche di investimento internazionali.
Quello delle borse nazionali si sta trasformando in un mercato concorrenziale di multinazionali. L´idea di una Borsa Europea è una chimera anacronistica di cui si parla solo in Italia. Perfino i francesi, campioni di nazionalismo, si sono fusi con il New York Stock Exchange.
Ma in Italia domina sempre la logica del controllo. Se anche le banche italiane si unissero e riuscissero a nominare un Ceo italiano (perché di questo alla fine si tratta), non vedo quale sarebbe il vantaggio per la nostra piazza finanziaria. Il peso che già abbiamo nel consiglio di Lse (5 consiglieri su 12) eccede il nostro peso economico; e l´attuale Ceo è francese.
Se perdiamo rilevanza è perché le nostre società diventano sempre meno interessanti: o non si quotano, o solo una frazione delle azioni è scambiabile in Borsa, per tutelare il controllo. Oggi, il peso dei titoli italiani negli indici europei è inferiore anche alla Spagna; meno della metà di Svizzera, Germania e Scandinavia; un terzo della Francia; un ottavo della Gran Bretagna. E la quota del risparmio internazionale gestito dalle banche italiane, tutte concentrate sulla redditizia distribuzione interna, è pressoché nulla.
La fusione di Borsa Italiana con Lse era un´opportunità perché avrebbe permesso agli italiani di sviluppare, esportandola su una piazza internazionale, le attività di post-trade (l´espletamento delle negoziazioni) e il mercato dei derivati, nelle quali abbiamo un punto di eccellenza, e di cui Lse ne era privo. La critica corretta è che la fusione non ha ancora dato l´impulso a queste attività, come avrebbe dovuto. A questo dovrebbero puntare gli amministratori italiani: nell´interesse del Paese, ma anche di Lse.
invece curioso che IntesaSanpaolo e Unicredito, socie in Lse con oltre l´11%, dopo aver avendo ceduto immobili strumentali, banche depositarie, sportelli, società di gestione (Fideuram) e lanciato aumenti di capitale (Unicredito) per migliorare i ratio patrimoniali, considerino ora la partecipazione nella società di borsa un indispensabile strumento a difesa dell´italianità; nella City. Almeno, stando alle dichiarazioni di Corrado Passera (Repubblica, 9 aprile).