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 2010  aprile 10 Sabato calendario

LA MAFIA, MONTALBANO E IL SOGNO DELL’ENEL

Nella banda di scavezzacolli di Andrea Camilleri c’era Buttice che «era grassissimo e lento» e «sulla testa si metteva uno scolapasta fornito di sottogola» e poi Zicari che era invece magrissimo e «si tingeva di bianco con una pietra di gesso i capelli e la faccia e si calava dentro una montagnola di sale dove, dimenandosi come un serpente, riusciva ad affondare fino al collo» finché si vedevano solo gli occhi e da lì «emergeva all’improvviso, fiondava, colpiva inesorabile, riscompariva dentro il sale».
Settant’anni e un milione di sigarette dopo, lo scrittore riconosce a fatica in Porto Empedocle l’amatissimo paese della sua infanzia. Come fatica a riconoscerlo Alfonso Bugea che nel libro Oltre il muro della mafia ha scritto: «Come tanti empedoclini ho sentito le urla di dolore e lo strazio dei parenti delle vittime di mafia, ho visto il bagliore della violenza sfiorarmi. Ho visto i miei coetanei dilaniati dal piombo assassino: alcuni erano diventati mafiosi e sono morti sbriciolati dalla faida, altri hanno perso la vita per un tragico errore, per essersi trovati nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. Ma entrambi sono stati sacrificati sotto lo stesso cielo, accomunati dallo stesso, infausto, destino».
Ha l’alito pesante, la mafia di questa terra agrigentina. Qui, dove mosse i primi passi quel Vito Cascio Ferro indicato come l’assassino del leggendario Joe Petrosino, hanno via via trovato rifugio Totò Riina, Bernardo Provenzano e Giovanni Brusca. Qui è stato tenuto prigioniero il piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido dopo una prigionia durante la quale era così convinto che i suoi carcerieri lo proteggessero dalle cosche nemiche che li chiamava «marescià» e «brigadiere». Qui si è scatenata una guerra con decine di morti tra cui Giuseppe Settecasi, che dopo esser stato ucciso fu portato alla famiglia e «vestito e messo su un letto al centro della casa e quando arrivarono i carabinieri quello tutto sembrava tranne che un morto ammazzato».
Qui l’essere o non essere un sicario può dipendere dal caso. Come capitò a Giulio Albanese, che era così grasso ma così grasso che lo chiamavano «Panzachiatta» e il giorno del suo battesimo di fuoco, mandato ad ammazzare un tizio quasi davanti alla chiesa della Matrice, sul più bello che doveva smontare col fucile a pompa si incastrò con la pancia negli spazi angusti della A112 e fu così che capì di non essere fatto per diventare assassino e finì per pentirsi e vuotare il sacco. Qui la stazione dei carabinieri, avamposto dello Stato in terre ostili, è un appartamento al primo piano d’una palazzina scrostata. Sopra un deposito di prodotti alimentari. Niente porta blindata. Né sistema d’allarme. Né telecamere. Se scatta un’emergenza, i militari devono scendere di corsa le scale, uscire allo scoperto, salire in macchina e sperare di non trovarsi imbottigliati nei vicoli.
Sono 14 anni che devono avere la caserma nuova: quattordici. L’edificio, messo a disposizione dal comune, doveva essere ristrutturato dal demanio. Progetto fatto. Soldi mai visti. Lavori mai iniziati. Finché il nuovo sindaco Calogero «Lillo» Firetto, eletto con una lista civica «di salute pubblica, di destra e di sinistra», ha preteso la restituzione del manufatto. La nuova caserma, adesso, la sta facendo a spese sue Salvatore Moncada, il re dell’energia eolica che alla testa del gruppo «Moncada Energy» nel maggio di tre anni fa, sfidando tra le altre le ire di Vittorio Sgarbi, ha rilevato gli spazi ingombri di cadaveri cementizi dell’ex Montedison, uno dei simboli del fallimento dell’industrializzazione del Sud. Dice che no, non è stato facile farsi carico della cosa. Che certo, tira un’aria nuova «ma costruire qui una caserma dei carabinieri significa dire ad alta voce "io sto da questa parte qua"…»
«Quando ero ragazzo – scrive Camilleri nella prefazione al libro di Bugea’ di contribuire a combattere la mafia assieme alle forze dell’ordine non passava per la testa a nessuna persona ”perbene”. Le persone perbene, omeglio ”civili” come si usava dire allora, la mafia semplicemente la ignoravano. Di mafia non se ne doveva parlare a casa, se per caso sotto alle tue finestre avveniva un omicidio di mafia, si chiudevano bene le finestre. Nominare la mafia in famiglia era come parlare di diarrea durante un pranzo di gala». Qualcosa, certo, è cambiato. E lo stesso creatore del commissario Montalbano (la cui statua di bronzo, appoggiata a un lampione, si incontra sul corso insieme con quella dell’altra gloria locale, Pirandello) ha voluto sbilanciarsi riconoscendo che «la lenta decadenza non solo è stata fermata, ma una magica operazione di restauro sta facendo scomparire le rughe, le crepe, i danni del tempo, dell’incuria e della trascuratezza». Simbolo di questa «rinascita», la Torre di Carlo V, «rimessa a nuovo, liberata dalle casupole che l’assediavano, e destinata a diventare il Museo del mare».
Che la Torre, imponente, riassuma la storia di quello che un tempo era chiamato il Molo di Girgenti è vero. Basti leggere quella «chicca» camilleriana (gli estratti sono nella pagina seguente) che è La strage dimenticata sul massacro dei galeotti che il comandante del bastione-penitenziario temeva si unissero alle rivolte antiborboniche del 1848. E non c’è dubbio che il restauro del maniero, con quello dell’elegante palazzo municipale e del teatro, sia una tappa centrale del recupero di questa cittadina che insieme con i paesi dei dintorni, come la Comitini di «Ciaula scopre la luna» e del «Vitalizio», fornì a Pirandello prima e a Camilleri poi storie irresistibili. Come quella del cavalier Sgarlata che ogni sabato declamava per strada «le cantiche scritte nel corso della settimana di un suo interminabile poema in ottave dal titolo emblematico "La Merda e l’uomo"» rimasto incompiuto alla morte del Poeta quand’era già arrivato a 249mila versi.
Il guaio è che qui non sono rimasti incompiuti soltanto i poemi strampalati. Ma anche un ciclopico albergone il cui scheletro domina la costa. Il parcheggio abbandonato a metà costruzione che solo ora verrà riutilizzato dal comune. La circonvallazione che salendo dalla costa doveva passare dietro l’area industriale per tuffarsi in una galleria nella montagna e passar sotto il paese. L’opera, un quarto di secolo fa, era quasi finita. Mancava soltanto un troncone di una trentina di metri alla fine della lunga rampa che sale al tunnel. Soldi finiti. Abbandono. Due decenni e passa dopo, pare che le erbacce che si sono impossessate del manufatto possono essere rimosse. La gara d’appalto per unire la rampa mozza al tunnel è stata fatta. andata come ogni gara sicula: tutte le ditte hanno presentato un ribasso identico del 7,1352 percento. Con conseguente sorteggio del vincitore e automatico ricorso (respinto proprio ieri) del secondo classificato. Auguri.
La grande scommessa che divide il paese, spacca gli ambientalisti ma soprattutto riaccende lo scontro con Agrigento, madre ripudiata, è sul rigassificatore. Che dovrebbe occupare la larga area strappata al mare per costruire il sogno di una industria siciliana. Le foto scattate da Italo Insolera nel ”56 e raccolte nel libro «L’occhio e lamemoria» raccontano un’illusione. Quelle di oggi un fallimento. Dicono le cronache che dal 1880 al 1895 da Porto Empedocle partivano ogni anno, mediamente, 350mila tonnellate di zolfo e 145mila di salgemma. Cataste e cataste di pani di zolfo, cantati da Diega Lo Presti Russo: «Surfaru nni l’aria si senti / nni tutti li cosi / nni l’oliva saracena / nni li ficu d’innia spinusi…».
Non che sia mai stata l’America. Ma certo Porto Empedocle fu, per un po’, uno dei centri più vitali dell’industrializzazione meridionale. In particolare dopo essere stato scelto da Montecatini per la produzione di fertilizzanti. Una vocazione per un certo tempo parallela al traffico marittimo (nel solo 1925 salparono 3.000 quintali di carrube, 407mila di fave, 14mila di mandorle) e alla pesca. Lo ricordano i vecchi dalle guance scavate, lo ricorda uno struggente documentario della Rai del 1958, quando la flotta di pescherecci che era arrivata ad essere tra le prime d’Italia.
Non c’è più il formicolio solfataro («da mane a sera è uno stridor continuo di carri che vengono carichi di zolfo dalla stazione ferroviaria o anche, direttamente, dalle zolfare vicine; e un rimescolìo senza fine d’uomini scalzi e di bestie, ciattìo di piedi nudi sul bagnato, sbaccaneggiar di liti, bestemmie e richiami, tra lo strepito e i fischi d’un treno che attraversa la spiaggia») descritto da Pirandello. Non c’è più la Montedison. I pescherecci si sono ridotti drasticamente. La disoccupazione è stratosferica. Il pizzo, stando al processo Akragas, colpisce tutti, farmacie comprese. E mentre il porto dà qualche segnale di ripresa insieme con la crescita della Moncada, gli occhi sono puntati lì, sul rigassificatore. «Perché insistere sull’industrializzazione e non puntare invece sul recupero della spiaggia e sul turismo?», attaccano gli avversari come il leader di Legambiente Peppe Arnone o il sindaco destrorso di Agrigento Marco Zambuto, che contro il progetto ha scatenato un referendum (93,8% di no ma con 6.800 cittadini votanti su 48 mila) e un ricorso al Tar atteso la settimana prossima. «Perché Porto Empedocle è nato come porto e quella è la sua vocazione – risponde Firetto ”. L’avevamo cercata, un’alternativa. Appena il grande imprenditore internazionale del turismo ha visto il posto ha detto: no, il recupero ambientale, qui, è impossibile».
Anche Camilleri, tirandosi addosso mille fulmini, si è detto d’accordo. E così, dopo iniziali perplessità, la presidente del Fai Giulia Maria Crespi: «L’alternativa è il nulla». Tanto più che il sindaco («certo, sono un dipendente dell’Enel in aspettativa, ma quando hanno visto l’accordo i cittadini hanno capito che ho giocato solo per loro») ha portato a casa varie cose: 12 milioni di euro una tantum, più un milione e 800 mila euro fissi l’anno, più una quota di royalties, più il dragaggio del porto fino a 14metri per accogliere navi più grandi, più l’impegno a favorire imprese e personale locali. Più la progettazione della banchina crocieristica. Più il finanziamento del Museo del Mare. Più l’impegno fondamentale: «I grandi serbatoi saranno interrati e sporgeranno solo con due cupole alte meno delle vecchie fabbriche abbattute e impossibili da vedere sia dalla casa di Pirandello sia dalla Valle dei Templi». Il tutto, giura, con gare d’appalto inchiodate al «protocollo di legalità».
La vicenda del rigassificatore pare davvero una commedia pirandelliana. Comincia da lontano. Esattamente nel maggio 1992 quando il presidente dell’Enel Franco Viezzoli firma un accordo con la Nigeria per 3,7 milioni di metri cubi di gas liquefatto l’anno per 25 anni dal 1996. Una operazione gigantesca, che dovrebbe alimentare la centrale di Montalto di Castro progettata per sostituire l’impianto atomico mandato in pensione dal referendum ancora prima di entrare in funzione. Ma il progetto si infrange contro il no degli ambientalisti. Si punta su Monfalcone: buca anche lì. Su Taranto: buca. Brindisi: buca. Mentre l’Enel, per non pagare 20 mila miliardi di lire di penali alla Nigeria, è costretta a far passare il gas dalla Francia.
Finché il gigante elettrico mette gli occhi su Porto Empedocle. Dove, sorpresa, c’è una società privata che ha già chiesto i permessi per un suo rigassificatore. Si chiama «Nuove energie» ed è controllata da due siderurgici bresciani: Amato Stabiumi e Ettore Lonati. Il quale dopo aver affiancato Colaninno nell’affare Telecom collaborò coi «furbetti del quartierino» (definizione di Stefano Ricucci) alle scalate bancarie del 2005. Scalate «fortunate»: vendendo le loro azioni Bnl all’Unipol di Consorte i fratelli Lonati intascarono qualcosa come 105 milioni di euro.
Vi domanderete: cosa può spingere dei siderurgici bresciani a proporre un rigassificatore in Sicilia, inizialmente previsto ad Augusta? I soldi, certo. L’energia, come prova l’irruzione di imprenditori quali Carlo De Benedetti, garantisce profitti da favola. Ma qui c’è di più: l’«intuizione», diciamo così, che un giorno o l’altro l’Enel avrebbe puntato lì: su Porto Empedocle. E lì arriva, infatti. Ovvio: c’è un’area di 60 ettari strappata al mare e costata una quarantina di milioni senza che ci fossero, praticamente, domande di concessione. C’è nei pressi una centrale termoelettrica da 300 megawatt da riconvertire a gas. Ma soprattutto c’è l’elemento più allettante: l’iter burocratico è già avviato. Anzi, è sorprendentemente spedito. Morale: invece che andare dal notaio, spendere pochi euro e fondare una nuova società, l’Enel decide di tagliar corto e comprare il 90% di «Nuove energie». Caruccia: 29,7 milioni di euro.
Ma come: per una scatola vuota con 99 mila euro di capitale la cui voce più grossa del bilancio erano gli 802 mila euro spesi per avviare la fase progettuale? Risposta dell’Enel: non c’era scelta, a ricominciare tutto da capo col tormentone già in dirittura d’arrivo si sarebbero perduti almeno altri due anni. Insomma: i bresciani, avessero o no i 700 milioni per fare il rigassificatore, su quell’area avevano messo il cappello. E quel cappello occorreva comprarlo. Tra i brindisi finali, da notare quello di Margherita Stabiumi, rappresentante del 10% della «Nuove energie» trattenuto dai bresciani, e Gaetano Armao, un avvocato palermitano dal curriculum lungo come una quaresima compreso un assessorato nella giunta Lombardo e un ruolo di fiduciario di Stefano Ricucci, l’odontotecnico di Zagarolo compagno di scalate di quel Lonati che con gli Stabiumi è azionista di minoranza del rigassificatore. Cin cin.
Vada come vada, una cosa è certa. Quel nuovo impianto che dovrebbe essere pronto, se tutto va bene, nel 2014, sarebbe per l’Enel la fine di un incubo. Sapete quanto paga in più per quel gas nigeriano smistato da lavorare alla Francia a causa della mancanza di uno stabilimento italiano che riporti tutto allo stato gassoso? Circa 140 milioni l’anno. Dal 1996. Totale in valuta attuale: due miliardi di euro. Pagati nelle bollette, ovvio, dagli italiani.
Sergio Rizzo Gian Antonio Stella