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 2010  aprile 10 Sabato calendario

VITA DI CAVOUR - PUNTATA 11 - IL GEOMETRA CAVOUR

Che c’è di strano a esser perseguitati dalla famiglia? A diciannove anni poi…
La famiglia, dopo molti traffici, era riuscita a insinuarsi nelle grazie del re. Cavour, facendo il liberale, metteva in pericolo anni di ruffianerie. Gli diedero addosso persino per il fatto che non metteva i saluti in fondo alle lettere. Dicevano che s’atteggiava a filosofo, che reprimeva i suoi sentimenti naturali.
Perché non se ne andava via di casa?
Non c’entra niente. Non era quel tipo di libertà che gli mancava. In definitiva poteva fare quello che voleva.
Sì?
Sì, faceva quello che voleva. Notti in piedi, giocare a carte, donne.
Che donne?
C’erano delle donne. Non sappiamo chi fossero, ma c’erano. C’è una frase: «In un Paese in cui le signore sono molto galanti, sarebbe molto difficile non legarmi a qualcuna delle bellezze che si disputano l’adorazione dei giovani».
Che modo di esprimersi!
Sul gioco scrisse: «Il gioco vi dà un’eccitazione, una tensione nervosa…». Giocava soprattutto a goffo. Giocava forte, a soldi.
Quindi, le storie che gli faceva la famiglia erano solo per queste idee liberali?
Sì. Scrisse: «M’hanno chiamato degenere dei miei avi, traditore del mio Paese, della mia casta. Ma è colpa mia se vedo le cose in modo diverso da loro? Tutte le considerazioni personali, i vantaggi politici e pecuniari mi indurrebbero a militare piuttosto sotto le bandiere dell’assolutismo. E però mio padre e mia madre non arrossirebbero di vergogna se per ragioni personali praticassi in pubblico opinioni contrarie al mio vero modo di pensare?». Aveva però anche depressioni tutte sue, degli scoraggiamenti. Quello stesso giocare forsennato, e d’azzardo, lo svuotava. «A Torino s’incontrano solo persone che parlano di teatro o di scandali». Aveva il terrore d’esser solo un uomo da salotti, un damerino da ballo, uno spirito freddo, un’intelligenza resa inutile da quel Paese dove non aveva nessun effetto applicarsi a qualcosa di serio. Oltre tutto in ufficio non faceva praticamente nulla.
Lavorava?
Sì, alla direzione del Genio di Torino. S’era diplomato geniere all’Accademia.
Il geniere, in definitiva, che mestiere è…?
Un geometra militare. Forse addirittura un ingegnere militare. Aveva studiato fortificazione permanente, fortificazione campale, ponti-batterie, difesa delle piazze. S’intendeva di edifici. Aveva dato un esame anche in architettura civile.
Allora perché non lo mettevano a costruir qualcosa?
Lo mandavano in giro, in posti dove c’erano fortezze da riparare. Ventimiglia, Exilles, l’Esseillon. Gli austriaci pretendevano che a ovest la frontiera fosse sicura, in caso di invasione francese. I piemontesi eseguivano.
Gli piaceva?
No. Exilles era un forte millenario dell’Alta Val di Susa, rifatto di sana pianta dai Savoia, un deserto freddo e popolato di fantasmi. Cavour riuscì a scappar via dopo dieci giorni. L’Esseillon era un luogo di tenebra, carico di nebbie. Cavour ci arrivò a giugno e ad agosto chiese un congedo di tre mesi.
Non un gran soldato.
No. A marzo lo spedirono a Genova.
Marzo del ”29?
Marzo del ”30.
Genova gli sarà piaciuta.
Sì, a Genova restò otto mesi filati. Perse abbastanza la testa.
In che senso?
In tutti i sensi. La Direzione del Genio era alloggiata alla Porta dell’Arco. Cavour ci trovò Cassio, il compagno di scuola democratico che i genitori incolpavano delle «idee folli» del figlio. La città era di spirito repubblicano e detestava i Savoia. Carlo Felice aveva sguinzagliato spie dappertutto. I cannoni dei forti di Castelletto e San Giorgio erano puntati sulle case. Per le strade giravano 8.600 soldati. Il servizio segreto si dava da fare in particolare con quelli del Genio, noti estremisti. L’insieme aveva elettrizzato il conte. Giocava a carte dalla vecchia Pallavicini, s’era messo a studiare l’inglese. Non aveva i soldi per comprarsi il «Galignani’s Messenger» e bussava a casa dei De La Rüe, i banchieri, per leggerlo gratis (a un certo punto la madre gli regalò l’abbonamento). Andò a un paio di feste al consolato di Francia e lì incontrò Nina, la figlia del console. Persero la testa tutti e due.
Nina sarebbe?
La marchesa Anna Giustiniani, nata Schiaffino, di anni ventitré. Una donna inquieta, sensuale, autodistruttiva. Era cresciuta a Parigi, parlava quattro lingue, suonava il piano, capiva di letteratura, filosofia, arte. La madre voleva sposarla a Niccolò Sauli, il musicista, perché sperava che un temperamento artistico avrebbe dato un senso ai suoi tormenti. Anna disse di no per il solo gusto di scontentare i genitori. Si prese a dispetto il marchese Giustiniani, di sette anni più vecchio. Un libertino indifferente, un viveur di provincia.
Il marchese s’accorse di qualcosa?
Tutti s’accorsero di qualcosa. Allo spasimante di Nina, il conte Carlo Parodi, che in quel momento stava a Parigi, scrissero subito: «… Sai la Giustinianina? La tua Giustinianina? Chi la vuole sansimoniana, chi protestante, chi innamorata di un tal Cavour piemontese…»