MARCO BELPOLITI, Tuttolibri - La Stampa 10/4/2010, pagina VII, 10 aprile 2010
L’EFFETTO FLOU DEL GRAND PRIX? ERRORE PERFETTO
Ha scritto Diana Arbus: « importante fare brutte fotografie». Ma se questo può valere per un bravo fotografo, che ne è invece delle brutte foto dei dilettanti? Clément Chéroux, conservatore del fondo fotografico del Centre Pompidou di Parigi, curatore di un libro-mostra importante, Memorie dei campi (Contrasto), si è posto questo problema in un’opera breve, curiosa e stimolante, L’errore fotografico.
Partendo da una mostra del 1991, Fautographique, che raccoglieva migliaia di scatti errati, quelli per cui coloro che sviluppano le pellicole e stampano i rettangoli di carta sensibile, almeno sino a qualche tempo fa, non facevano - almeno in Francia - pagare la singola immagine, l’autore esplora l’idea stessa di errore visivo. Chéroux presuppone che esista una conoscenza per errore, postulata dal filosofo Gaston Bachelard, per cui «è nelle ombre, nei suoi scatti errati, nei suoi accidenti e nei suoi lapsus che la fotografia si svela e si lascia analizzare»: l’errore fotografico come strumento cognitivo.
Cosa sia davvero la fotografia, a quasi due secoli dalla sua invenzione, resta nonostante tutto, un enigma, così da obbligare, chi se ne occupa, a ripercorrere alcuni suoi aspetti in modo obliquo, come fa Chéroux. Dopo aver reperito alcune immagini dell’Ottocento con curiosi errori - un cane che fa i suoi bisogni in una strada fissata da Robert Fenton nel 1850, o una mosca che si staglia sul paesaggio della Tomba dei Mammalucchi al Cairo di Antonio Beato, del 1870 -, e dopo aver riletto i manuali francesi per dilettanti, che spiegano come evitare gli errori fotografici, l’autore si muove in un campo segnato dall’arte contemporanea, dove l’errore - o almeno il «classico» errore: taglio sbagliato, sfuocatura, riflessi, ecc. - diventa non solo necessario, ma bensì ricercato. Come mostra anche il recente volume Laboratorio Italia, la fotografia nell’arte contemporanea (a cura di Marinella Paderni, Johan & Levi, pp. 207, e36) che documenta il lavoro con la fotografia delle giovani generazioni di artisti italiani.
Quando è cominciato quest’uso «creativo» dello sbaglio, che oggi vediamo riprodotto nella stessa fotografia di moda sui rotocalchi? L’immagine topica che Chéroux usa è la celebre istantanea di Jacques-Henri Lartigue del 1913: una macchina da corsa di un Gran Premio, con le ruote deformate, per metà fuori quadro e lo sfondo, spettatori compresi, flou. Lartigue l’aveva considerata un errore, sino a che, per opera delle avanguardie storiche, questo effetto flou è tornato in auge, tanto da apparire come un esempio di «perfezione» fotografica. Prima di arrivare a questo c’è però l’introduzione dell’ombra nella fotografia, in precedenza esclusa: l’ombra del fotografo, le ombre degli oggetti, la confusione tra chiaro e scuro.
Moholy-Nagy è colui che usa le «virtualità inattese». Ha compreso, scrive Chéroux, che gli errori del linguaggio fotografico costituiscono un’eccellente base per la nuova grammatica visuale, che egli tenta di comporre in vari modi negli Anni Trenta del ”900. Non è un caso che la caratteristica propria del Modernismo, di cui l’ex insegnante del Bauhaus è perfetto esponente, è proprio quello di aver suscitato una riflessione sulle specificità del medium, come mostrerà poi il lavoro di Ugo Mulas nelle Verifiche degli Anni Settanta. E come conferma l’uso attuale di Photoshop nell’elaborazione elettrica delle immagini: i vari aspetti della foto sono trasformati in indici, in parametri numerici, per cui l’errore risulta nient’altro che una variazione inattesa di questi medesimi parametri.
Ma è il Surrealismo, e in particolare Man Ray, a dare la svolta definitiva all’idea dell’errore fotografico. Picabia aveva dichiarato: l’arte è il culto dell’errore. I surrealisti si propongono di turbare la percezione, introducendo la variabile del «soggetto» a discapito di quella dell’autore. Sono queste le pagine più interessanti del libro, là dove Chéroux mostra come l’errore metta in discussione l’onnipotenza dell’autore a vantaggio del «soggetto». Per Man Ray l’incidente nella fotografia è un modo per abbandonarsi al caso, per far emergere forme visive inedite, nuovi soggetti; per Moholy-Nagy l’errore è invece un mezzo di esplorazione del medium stesso, e quindi scoperta di nuovi modi della rappresentazione. Detto altrimenti: Man Ray lavora con l’inconscio, Moholy-Nagy col conscio; il primo con il vasto campo dell’irrazionale, il secondo con la razionalità. E se Man Ray scopre, Moholy-Nagy invece inventa. Nel Surrealismo è dunque l’errore come erranza a segnare l’attività visiva.
Nelle conclusioni l’autore mette a fuoco la questione capitale, quella per cui la fotografia resta ancor oggi legata nel senso comune alla mimesis, alla riproduzione della realtà. Quando non è mimetica, non è più fotografia; quando è poco mimetica, è errata. La valutazione del fallimento è dunque connessa alle variazioni culturali, al tempo e allo spazio, ma dipende in ogni caso dall’attaccamento alla mimesis dell’osservatore che la valuta.
La messa in discussione di tutto questo è il cavallo di battaglia delle avanguardie. L’errore come fonte di conoscenza definisce perciò i limiti stessi della fotografia, meglio della lettura della fotografia che ne facciamo: dall’anestetico all’estetico, e viceversa. Come accade per le scatole Brillo esposte da Andy Warhol negli anni Sessanta: cosa fa sì che la scatola rifatta sia arte e quella originale no? Noi, il nostro gusto, la nostra intelligenza delle cose, la nostra percezione culturale. Il Surrealismo non è morto, anzi.