PIERO BIANUCCI, Tuttolibri - La Stampa 10/4/2010, pagina 1, 10 aprile 2010
CI VORREBBE UNA VENTATA DI FANTASIA
Fantasia e creatività sono le parole magiche che dovrebbero portarci fuori dalla crisi. Per questo attraversano un periodo di grande fortuna. Politici, imprenditori ed economisti le usano fino a logorarle, dimenticando che la crisi è figlia della finanza creativa e di «fantasie razionali» come quelle del premio Nobel per l’economia Robert C. Merton, ideatore dei modelli matematici per stabilire il valore dei prodotti derivati e la gestione dei rischi.
Arrivano segnali contraddittori. Fantasia è il film a cartoni animati che Walt Disney lancia nel 1940, in piena seconda guerra mondiale, mettendo insieme la libertà del disegno e la libertà della musica. Oggi nelle sale cinematografiche la fantasia passa per il realismo in 3D, la magia bidimensionale delle ombre mobili sullo schermo cede il passo a una tridimensionalità così falsa da aver bisogno di occhialini. Viviamo di scienza e tecnica, ma oggi è di moda denigrarle come aride e disumane: eppure queste manifestazioni della Ragione non esisterebbero se nei laboratori non ci fosse un esercito di menti fantasiose e creative.
Contraddittorio, forse, è anche analizzare la fantasia con gli attrezzi dello psicologo (test, esperimenti, misure), ma proprio questa è la sfida affrontata da Paolo Legrenzi, professore di psicologia allo Iuav, Istituto Universitario di Architettura di Venezia. A lui piacciono i terreni friabili, i concetti sfumati. Per il Mulino ha scritto i saggi La felicità, Creatività e innovazione, Credere, e ora, appunto, La fantasia (pp. 128, e9,8).
Pur nelle sue infinite forme e livelli, dall’arte al pettegolezzo, dal gioco infantile alle ossessioni di certe malattie mentali, sempre la fantasia «inventa mondi possibili» (e gratuiti, aggiungerei), diversamente dalla immaginazione, che «trova una risposta creativa a un problema noto, presente nel mondo reale».
Al suo livello minimo, quasi subliminale, la fantasia è il «flusso di coscienza», l’indistinto succedersi di pensieri, sensazioni, ricordi, percezioni, parole mute che James Joyce nell’Ulisse fa scorrere nella mente di Molly Bloom mentre sta per addormentarsi. L’elusivo mondo interno del flusso di coscienza nel gioco del bambino si traduce in autentici mondi possibili: il bambino può essere solo ma muovere eserciti, usare una matita come una spada, entrare in una scatola e pilotare una Ferrari, stare in salotto e attraversare la savana. Quando si diventa adulti l’invenzione di mondi possibili si traduce in utopie politiche (in greco outopia significa nessun luogo) o in religioni (con i loro paradisi), o in forme d’arte (romanzo, poesia, pittura, scultura, musica).
La comparsa della fantasia nello sviluppo del bambino è una tappa fondamentale. Per usare la fantasia bisogna saper costruire una rappresentazione mentale della realtà. Succede già a 2-3 anni: se mostrate a un bambino il disegno del profilo di un elefante, e poi ne scoprite solo un particolare significativo (la proboscide), il bambino la riconoscerà come parte del disegno complessivo, di cui ha già in sé la «mappa mentale». A 6 anni saprà separare le sue credenze da quelle altrui, distinguere ciò che capita nella realtà e ciò che è simulato nei giochi, far interagire realtà e fantasia in modo controllato come avviene nelle fiabe, elaborare ipotesi «scientifiche» sia pure sulla base di una fisica ingenua.
E qui si vede che «la fantasia non è una capacità cognitiva contrapposta al ragionamento logico», tant’è vero che incontra un limite invalicabile proprio nella plausibilità delle sue invenzioni: si può violare una regola (per Mary Poppins non vale la legge di gravità, Harry Potter possiede alcuni poteri magici) ma non è lecito violare tutte le regole insieme, pena la perdita di senso.
In qualche modo, dunque, esiste una «grammatica della fantasia», per usare un titolo di Gianni Rodari, grande scrittore per bambini (e adulti) ma anche originale pedagogista scomparso il 14 aprile di trent’anni fa.
La ricognizione di Legrenzi è lieve e veloce senza rinunciare alla completezza. Non sfuggono al catalogo le illusioni create dei prestigiatori, i «sogni ad occhi aperti» della nostra vita quotidiana, la fantascienza, le integrazioni più o meno consapevoli che gli storici mettono nelle lacune degli eventi quando manca la documentazione d’archivio, la fantasia che lo scienziato esercita nell’interpretare i fenomeni della natura. C’è pure la fantasia erotica: il fatto che la pornografia pura sia eroticamente sterile conferma ancora una volta che la fantasia è il luogo del possibile contrapposto ai luoghi del reale.
Il tema della legalità della fantasia, cioè il fatto che essa debba rispettare alcune regole, è cruciale anche quando si parla di creatività, come fece Emilio Garroni (1925-2005), professore di Estetica all’Università di Roma, quando nel 1978 scrisse questa voce per l’Enciclopedia Einaudi, un saggio del quale Paolo Virno ha ora curato la riedizione (Creatività,Quodlibet, pp. 196, e16,50).
In prima approssimazione si potrebbe distinguere tra una creatività debole governata dalle regole e una creatività forte che cambia le regole. Nel concreto si tocca con mano che non funziona. La creatività, per Garroni, è un adattamento all’ambiente che istituisce una dialettica tra regole e violazione delle regole, e quando l’adattamento non ha valore conoscitivo ma è, per così dire, allo stato puro, siamo di fronte l’arte. Potremmo discutere a lungo questa concezione estetica, ma sarebbe fuori tema.
La cosa interessante nel pensiero di Garroni è il tentativo di conciliare regole e violazione. Nell’arte la regola è il mestiere, la violazione è il gesto che innova e sorprende. Succede anche nella creatività scientifica. Sono regole i limiti sperimentali e le leggi di natura, è violazione saper rovesciare il punto di vista per guardare l’oggetto di studio in modo nuovo. Ma Einstein stava con i piedi per terra: «Creatività – diceva – è soprattutto nascondere bene le proprie fonti».