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 2010  aprile 10 Sabato calendario

GUARDARE NEGLI OCCHI IL VOLTO SUL LENZUOLO

Ma non si vede niente!
Il primo a parlare è sempre il miscredente. Lasciamolo fare. Bisogna avere pazienza con lui.
Sono le otto del mattino e siamo un drappello di umani al cospetto del divino. Un cardinale, qualche assessore, due alti dirigenti, poliziotti, inservienti, giornalisti, più un’intera squadra di guide turistiche. Siamo qui, nel duomo, ad assistere per primi all’esposizione pubblica di un antico telo di lino, forse il tessuto più celebre d’ogni tempo, la Sacra Sindone di Torino.
Si attende che la meccanica faccia il suo lavoro. A forza d’argani e pulegge, la teca viene issata da dietro un catafalco drappeggiato. Due tonnellate di metalli resistenti e vetri antiproiettile per ospitare il lenzuolo di 0,34 millimetri e 2,450 kg di peso in cui fu avvolto - per chi ci crede - il corpo di Cristo deposto dalla croce. Potrebbe apparire a ogni istante di fronte ai nostri occhi. L’attesa, secondando la natura di ogni attesa, si prolunga. Qualcuno chiacchiera, come lo scolaretto in gita, qualcuno scatta una foto proibita, un cellulare squilla. Soprattutto, il meccanismo cigola. La fatica d’innalzarsi libera il suo canto di stridori e scricchiolii. Ma si sa, solo le meccaniche celesti producono armonie perfette, inaudite dalle nostre orecchie. Non bisogna lasciarsi distrarre o avvilire dai contesti. Il cigolio è il destino universale delle umane cose.
Il cardinale, giustamente, invita al raccoglimento. Il dialogo con le divinità richiede in ogni religione posture specifiche. La preghiera cattolica richiede umiltà, assenza di movimento, silenzio. Il riso è bandito, al corpo è prescritto di tacere. Il fedele parla a voce bassa, sussurra. Anche al rito della Messa partecipa in modo molto indiretto. Perfino la ripetizione simbolica del sacrificio divino lo convoca in quanto spettatore. E questo siamo noi, quando finalmente la Sacra Sindone appare davanti ai nostri occhi. Siamo spettatori. Mossi, credenti e non credenti, da una voluptas spectandi. Una voluttà del vedere che è anche, però - sarà bene non dimenticarlo - volontà di credere. Credenti e non credenti, siamo qui, questa mattina, per ripristinare l’antica linea di fede che un tempo congiungeva l’occhio, la mente e le cose del mondo. Una linea che sappiamo spezzata ma che desideriamo intensamente giunga fino a noi.
L’iperbole di fede contenuta in quella teca vuole, infatti, che l’immagine impressa sul telo di lino coincida con la nostra immagine mentale di Cristo e, soprattutto, vuole che questa e quella combacino con il corpo reale del Gesù esistito, crocifisso e asceso al Padre duemila anni fa. Se ha un senso proseguire la ricerca oculare della «vera immagine di Cristo», ricerca millenaria, quel senso dovrà trovarsi in questo nodo mai sciolto e, oggi, intricato più che mai: vogliamo credere alle immagini e, più ancora, vogliamo che le immagini giustificano la nostre fede in esse e nella consistenza del mondo. Vista da quest’angolazione, la questione della Sindone ci rivela che la religiosità cristiana è ben presente nella mentalità occidentale anche dopo la secolarizzazione. Che non era affatto solo un preludio ingenuo alla complessità moderna. Certo, la fede nella vera immagine - ci ricorda Hans Belting - «si tradisce anche per il fatto che può vacillare facilmente». Ma può esserci fede nella verità al di fuori di essa? Può esserci una qualsiasi fede quando l’antica linea di congiunzione tra l’occhio, le mente e il corpo del mondo si spezza?
Da sempre l’umanità ha comunicato con le immagini come se fossero corpi viventi, loro sostituti accettabili. Tutta l’arte figurativa ha, quantomeno in Occidente, un’origine funeraria. Gli antichi, quando guardavano agli avi in effige, vedevano i defunti che non vivevano più nei loro corpi. Le immagini vivificate occupavano, per conto del corpo mancante, il posto lasciato vuoto dal morto. Oppure, si trovava nell’immagine la presenza delle divinità che vivevano in un altro mondo. Il culto dei morti e quello divino indicavano l’appartenenza dell’immagine alla sfera del sacro, alla zona maestosa d’interscambio tra la cosa morta e la cosa viva.
Ho usato l’imperfetto ma, a ben guardare, lungo questa linea, sebbene spezzata, non ci siamo mai mossi da lì. E non soltanto perché milioni di pellegrini accorreranno a vedere la Sindone o perché molti di noi tengono ancora le fotografie dei cari estinti sul comodino accanto al letto. In mille altri modi ancora oggi manifestiamo l’antica propensione a dare vita alle immagini, il nostro ostinato desiderio che si stabilisca una stretta relazione tra le immagini e la nostra vita, la speranza che attecchiscano sui nostri corpi, con cui le percepiamo, le immaginiamo, le sogniamo. Anzi, la ricerca di vere presenze attraverso le immagini non è mai stata tanto intensa quanto nel nostro tempo, un tempo in cui abbiamo sempre più la sensazione di stringere nel pugno soltanto un mucchio di immagini infrante. Mai ci fu preghiera più fervente di quella sussurrata, spesso di nascosto, da noi voraci divoratori d’immagini profane, scettici di professione e creduloni per costrizione, credenti o non credenti.
Quella contemporanea non è - come vorrebbe il luogo comune - la civiltà dell’immagine. Semmai, è la società della degradazione dell’immagine. Anche in questo, a petto degli antichi, siamo dei dilettanti. Da quando abbiamo scollegato le nostre immagini dal culto dei morti e degli dei, traendole fuori dall’orbita del sacro, le abbiamo depotenziate. Saranno pure dappertutto, ma non vi è dubbio alcuno che le nostre immagini, nel campo dell’informazione, dell’intrattenimento o della pubblicità, godano di un’immeritata attenzione. Ma lo stesso vale per il campo dell’arte. Non c’è verso, infatti, per quanto ci si ostini a sostenerlo, che l’autonomia estetica dell’arte moderna, tutta incentrata sui valori formali, possa compensare la sua svalutazione ontologica, l’antica pretesa di provvedere all’uomo immagini di verità, umana o divina. Il mercato non valorizza l’arte assegnandole un prezzo, fosse anche altissimo. La neutralizza. Se non c’è qualcosa di sacro nell’arte, allora l’uomo è fango antico.
Il Cristianesimo porta l’estetica del vivente fin dentro questo nostro tempo iconofilo e meschino perché è fin dall’origine religione basata sul dogma dell’incarnazione e sulla promessa della risurrezione. una lunga storia, che cominciò nell’istante in cui l’invisibile spirito divino improntò di sé un corpo mortale. La prima immagine epifanica del Dio cristiano era già nella persona vivente di suo figlio (e prima ancora in quella di Adamo). Per questo motivo, quella storia poteva poi proseguire con l’annuncio della prossima resurrezione dei defunti. Di tutti, senza eccezione. La disputa attorno alla Sacra Sindone passa di qui. L’unica questione rilevante è se sia una reliquia o una semplice icona. Se un corpo un tempo vivente vi abbia deposto la sua impronta miracolosa o se sia un mero simbolo artificiale dai reconditi significati. Ma la questione non si formula in una paradossale ricerca della prova scientifica dell’esistenza di Dio. Risiede invece, nella nostra capacità, di animare l’inanimato. Di saper discernere, e dunque di trovare un varco, tra la vita e la morte.
Accettare, soprattutto da parte di noi laici, neopagani e miscredenti, che si tratti di un’icona come tante, questa è davvero l’ipotesi più deludente. Di icone ne abbiamo già a bizzeffe. Si forgiano più icone in un qualunque giorno di mercato che in un sinodo di vescovi.
I veri idolatri non sono, infatti, i cattolici che adorano il telo come orma sacra, siamo noi iconomani mediatici, noi cultori d’idoli vani, noi che non cerchiamo più la vera immagine (di Cristo o di qualsiasi altra cosa) perché abbiamo eliso ogni differenza tra immagine e realtà, tra idoli e icone, tra verità e illusione, noi figli di troppi dei minori, noi rassegnati a immagini che sono il puro simulacro di se stesse, noi per i quali un’immagine non è mai un avvenimento perché ogni avvenimento è solo immagine, noi che trascorriamo indifferenti tra un pannolino e un terremoto, noi, le nonnine ingannate che sferruzzano per i fantasmi, lasciando indecifrato il senso di ogni cosa, lo lasciano girare a vuoto, smarrendo, alla fine, pure la distinzione tra la vita e la morte. Noi, gli adoratori d’immagini che sappiamo fatte di materia inerte, di tabernacoli che sappiamo vuoti.
Per questo motivo, non ci si stupisca se proprio da parte nostra, di noi pecorelle smarrite nella selva degli idoli mondani, noi pecoroni e miscredenti, si avanzerà la pretesa che gli uomini di fede siano davvero tali, che la chiesa cattolica torni a essere innanzitutto un centro d’irradiazione spirituale e la religione cristiana una metafisica prima che una dottrina sociale (o, peggio ancora, una politica banale). Soprattutto per noi, che teli sacri non ne abbiamo, è tanto triste vedere l’immagine di Cristo scaduta a meccanica terrestre, la sua parola confusa al cigolio delle umane cose.