Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  aprile 08 Giovedì calendario

NON CI SONO PIù I PENTITI DI UNA VOLTA - INTERVISTA A LUCIANO VIOLANTE


Sono trascorsi dieci anni esatti dalla morte di Tommaso Buscetta, il primo dei grandi pentiti di mafia. E Luciano Violante, fra settembre 1992 e marzo 1994 a capo dell’Antimafia, ha una certezza: «I collaboratori di giustizia e i pentiti di oggi non sono come Buscetta».

Intende dire che «don Masino» era cosa diversa da Gaspare Spatuzza, vero, Violante? Certo, Buscetta conosceva «il quadro»: gli ultimi pentiti non danno proprio la stessa sensazione.

Buscetta era un eccellente conoscitore dei meccanismi di Cosa nostra. Pur essendo stato lontano per alcuni anni da Palermo, era in grado di riferire e di interpretare le vicende di Cosa nostra. Oggi i collaboratori di giustizia, pentiti o meno, hanno una caratura diversa.

Come vogliamo dire: quelle di oggi sono storie criminali più modeste?

Gli arresti che proseguono ininterrottamente da circa 18 anni hanno costretto la mafia a mettere in campo nuovi quadri. Questi hanno una carriera criminale meno consolidata rispetto ai vecchi capi che crescevano all’ombra dell’impunità. La loro attendibilità la decide la magistratura. Ma sanno ricostruire vicende che si muovono in un arco di tempo più ristretto.

Però straparlano di terzi, quarti e quinti livelli, e costruiscono scenari apocalittici per sentito dire, che crollano magari alla prima verifica.

Polizia e magistratura hanno la capacità di verificare l’attendibilità di un collaboratore. Molte dichiarazioni chiamano in causa politici. Prima di stracciarsi le vesti, partiti e Parlamento devono darsi credibili criteri per valutare la responsabilità politica. Se non se li danno, resta solo la responsabilità giudiziaria e a quel punto si rischia di rimanere appesi alle dichiarazioni di un pentito, spesso non verificate ma pubblicate su nove colonne. Si crea un meccanismo pericoloso.

Intanto i processi mediatici vanno avanti, travolgono, dettano l’agenda alla politica e spaccano il Paese in due parti che non sanno più comunicare tra loro.

Uno dei problemi più veri è quello della correttezza dell’informazione Sempre più opinioni e allusioni, sempre meno fatti e verifiche. Speriamo si cambi.

Diciamo meglio: uno dei problemi più veri e pressanti è quello dell’informazione ideologizzata, l’altro è quello della magistratura protagonista.

Sono due cose diverse. Fatte le debite eccezioni, l’autorità giudiziaria mi sembra più consapevole delle proprie responsabilità e meno disposta a darsi alibi. Ma naturalmente neanche nell’informazione si può fare di tutta un’erba un fascio.

Così non sembra a molti.

Così sembra a me.

Il protagonismo politico della magistratura non costituisce un problema?

Una cosa per volta. Dopo parliamo della magistratura. Ribadisco però che il nodo dell’informazione è grave. Le divisioni del mondo politico si proiettano su quasi tutti i mezzi di informazione. A una situazione del genere va posto un argine.

Un argine? Che cosa vuol dire?

La fuga di notizie sulle inchieste avviene, inutile negarlo, e io penso questo: è dovere del giornalista fornire tutte le notizie che possiede. Ma è diventato indispensabile altresì che i giornalisti si diano un codice di autodisciplina che eviti la degenerazione cui stiamo assistendo.

I giornalisti non si daranno mai un codice.

Su altre materie si sono autodisciplinati, penso al nome e alle foto delle donne vittime di violenza. Corrono il rischio di essere eterodisciplinati.

Da chi?

Dalla politica.

Già vedo un appello di Roberto Saviano per la libertà di stampa; una raccolta di firme su «Repubblica» per la libertà di stampa; Antonio Di Pietro che tuona contro il patto Violante-Alfano, affossatore della libera stampa...

Stimo molto Saviano e la Repubblica è un grande giornale europeo. La libertà di stampa è un bene assolutamente primario. Perciò auspico l’autodisciplina.

Ora tocca parlare dei magistrati. E venire al loro protagonismo, alle troppe comparsate in televisione, alla fuga di notizie, alle riforme necessarie, giuste e possibili.

Una cosa alla volta.

Le apparizioni in tv.

A chi si riferisce?

A molti. Ad Antonio Ingroia, fra gli altri, il quale va spesso da Michele Santoro a sottolineare il contributo alla giustizia fornito da Massimo Ciancimino.

Ingroia è un grande professionista. Ma è mia opinione che i magistrati debbano usare il massimo riserbo. Il riserbo è il presupposto dell’autorevolezza. Dalle cronache emerge in molti casi un eccessivo familismo tra cronisti e magistrati dell’accusa.

La fuga di notizie.

In molti possono favorire le fughe di notizie. Ai magistrati spetta la vigilanza sul segreto, ma non è detto che siano sempre loro a violarlo. Dopodiché…

Dopodiché?

Su mille fughe di notizie, su mille verbali di pentiti comparsi sulla stampa, il numero dei responsabili individuati corrisponde a zero. inaccettabile.

Per cui?

Per cui la prima misura possibile, e quando dico possibile intendo con l’accordo tra maggioranza e opposizione, sarebbe attribuire la competenza dell’indagine sulla fuga di notizie non allo stesso distretto giudiziario dove è avvenuta, ma a un altro distretto. Come già avviene a proposito delle inchieste che vedono inquisiti o vittime i magistrati.

Dove cane non mangia comunque cane.

Non è così; basta guardare i dati.

Pensa che si vedrebbero risultati?

Sì. Se cominciano a individuarsi i responsabili, i risultati ci saranno.

Lei nega che lo spirito di corporazione prevalga sempre?

Proprio lo spirito di tutela dell’istituzione porta nella pratica a essere più severi col collega magistrato. Piuttosto è difficile vedere punti d’incontro fra centrodestra e centrosinistra su riforme che non sopporterebbero più di essere rinviate.

Nei tre anni senza campagne elettorali che abbiamo davanti, intende?

Precisamente.

E siamo alla riforma.

Una dura legge della politica dice che nessun potere è disposto a fornire a un altro potere strumenti per ben operare, se non sono chiari il suo statuto, la sua collocazione costituzionale, i suoi limiti, la sua responsabilità. Ma qual è, al punto in cui siamo, la collocazione reale della magistratura nel nostro sistema?

Si spieghi meglio.

La magistratura in passato era parte della pubblica amministrazione; oggi è una componente del sistema di governo. Qual è il suo nuovo statuto? Come si definisce?

Nelle intenzioni dei magistrati, una vera riforma non deve esserci.

La magistratura italiana è diventata parte del sistema di governo del Paese. condizione fisiologica di tutte le grandi democrazie. Fatta salva l’indipendenza di giudici e pubblici ministeri, che deve rimanere intoccabile, una componente di governo indipendente da tutti non può essere giudicata dai propri pari.

Vale a dire?

Occorre spostare il giudizio disciplinare fuori degli organi di autogoverno, per tutte le magistrature.

Cambiando che cosa?

Istituendo, ripeto per tutte le magistrature, ordinaria, amministrativa, contabile e militare, una corte eletta per un terzo dai magistrati, per un terzo dal Parlamento, per l’ultimo terzo nominata dal presidente della Repubblica, tra categorie particolarmente qualificate, ex giudici costituzionali, per esempio.

Un altro esempio?

Oggi, su 156 tribunali, 88 non hanno magistrati sufficienti per funzionare adeguatamente. Altro che processo breve! Bisogna ridurre drasticamente il numero dei tribunali, istituendone uno per capoluogo di provincia. Si recupererebbero molti magistrati e si riempirebbero molti vuoti. Ma si può fare solo se destra e sinistra sono d’accordo. Ormai i problemi sono divenuti talmente radicali, e talmente urgenti, che nessuno dei due può fare le riforme senza l’altro. E non solo per quanto riguarda la giustizia.

Ci sarà il fuoco amico.

 evidente.

Soprattutto a sinistra.

I pasdaran sono tanto a sinistra quanto a destra.

Anche a sinistra.

Anche a destra

Ma se fosse che Antonio Di Pietro spara a zero?

Credo nell’etica della persuasione. In ogni caso il nostro partito, per la responsabilità che ha nei confronti degli italiani, non può sottrarsi all’impegno per la modernizzazione democratica del Paese.