Giancarlo De Cataldo, Il Messaggero 8/4/2010, 8 aprile 2010
GARBO. SULLE ALI DEL MITO
E poi, proprio sul più bello, mentre tutto il mondo la chiamava ”Divina”, Greta Garbo voltò le spalle alla folla, all’adorazione, al successo. E semplicemente scomparve dalla scena. Correva il 1941. La sua ultima commedia, Non tradirmi con me (titolo originale Two-faced woman, la Donna dai due volti, ma anche la donna ambigua, falsa) non aveva sbancato il botteghino. Colpa della guerra, che era nell’aria e di lì a poco sarebbe scoppiata con l’attacco giapponese a Pearl Harbour. Aveva trentasei anni. Ne avrebbe vissuti quasi altri cinquanta. Nell’ombra, o, se preferite, nel Mito: che qualche volta, e sicuramente nel suo caso, dell’ombra è compagno tanto prediletto quanto imbarazzante. Fu il primo (parziale) insuccesso di una carriera sino a quel momento lastricata di stelle luminosissime a indurre la Garbo a gettare la spugna? A giudicare dalle proposte che avrebbe continuato a ricevere negli anni successivi, si direbbe proprio di no. Fu il timore d’invecchiare? E chi può saperlo? Anche se la chirurgia estetica non aveva ancora raggiunto le vette d’eccellenza che oggi siamo abituati a riconoscere sul volto delle protagoniste dello ”show-biz”, la sua bellezza, consegnata all’immortalità dai fotogrammi d’epoca, era ancora intatta. Fu la stanchezza del mondo dorato e velenoso di Hollywood, che tante ragazze di bella speranza aveva massacrato e tante altre ”dalie nere” avrebbe sacrificato all’altare della vanità di massa? Difficile crederlo: dicono che fosse oculata amministratrice di se stessa, e non si stenta a crederlo, dal momento che veniva dal basso e aveva conosciuto, da ragazzina, l’infelicità e l’abbandono. E, di solito, chi viene dal basso non ama dissipare la fortuna conquistata con grande fatica. Sta di fatto che, ritirandosi dalle scene, lasciò campo libero alla sua grande rivale di sempre, Marlene Dietrich. Un’altra bellissima venuta dall’Europa. Ci sarebbero voluti anni e anni a Hollywood per inventare una diva autenticamente americana capace di scatenare così roventi passioni: nel ”41 Norma Jeane Baker era ancora un’adolescente californiana problematica che flirtava col figlio dei vicini e ignorava, lei per prima, che un giorno avrebbe fatto innamorare il mondo sotto il nome di Marilyn Monroe. Ma questa è un’altra storia. Nel ”41 c’erano solo Greta e Marlene, alte, bionde, nordiche, europee. Dopo il ”41, ci sarebbe stata solo Marlene. Impossibile immaginare due modelli femminili più diversi: nella vita, come sullo schermo. Greta Garbo era nata Greta Lovisa Gustafsson, ed era nata povera. Marlene era nata ricca. Greta era svedese, e se chiedete a chiunque abbia abbastanza anni da serbare memoria di quella memorabile stagione di definirla con un aggettivo, vi sentirete rispondere: algida. Marlene, invece, era berlinese. Si portava dentro lo spirito caustico e spumeggiante della sua città. Di Greta non si sarebbe mai saputo se votasse democratico o repubblicano. Marlene fu ferocemente antinazista. Non era solo il fatto di appartenere a due contrapposte scuderie produttive Greta era targata Metro Goldwyn Mayer, Marlene ”apparteneva” alla Paramount a marcare la differenza. C’erano tradizione, etnos, tipologie umane a renderle così diverse l’una dall’altra. E infatti. Mentre Marlene ballava, cantava, seduceva con la sua inconfondibile voce profonda e roca, incarnando di volta in volta ruoli di avventuriera con capello a veletta, sempre amante perduta e poi, più in là nel tempo, matura e giammai appassita, zingara tenebrosa per il Welles dell’ Infernale Quinlan, Greta era l’innamorata destinata alla perdizione, la bellezza che impazzisce per amore, la tragedia dell’impossibile possedersi destinato alla catastrofe romantica. La Regina Cristina. Anna Karenina. Margherita Gautier. Mata Hari. Anche quando è ”femme fatale”, paga sempre un prezzo all’amore, la Garbo. Dove Marlene domina, con il suo sguardo scintillante, Greta ha gli occhi umidi, e finisce fieramente sottomessa. Per questo il pubblico si divide: un uomo che ama dominare perderà la testa per Greta, uno che preferisce la lotta ed è disposto persino a perdere farà follie per Marlene. Eppure, per quanto algida, distaccata, specializzata in melodramma strappalacrime, alla prima scommessa in commedia la Garbo rivelerà doti comiche travolgenti. Accadrà nel ”39, quando un altro grande maestro europeo, Ernst Lubitsch, la dirigerà in Ninotchka: compagna russa tutta d’un pezzo ma, come impongono le regole del genere nelle mani miracolose di Lubitsch, dal cuore d’oro e dal gran sorriso. Poi, s’è già detto, il ritiro. E col ritiro il Mito. E sulle ali del Mito, l’immancabile ”gossip”. Un ”gossip” che avrebbe accomunato l’appartata Greta e la sempre attiva e scintillante Marlene. Di entrambe si vociferava di amori a getto continuo, etero e omosessuali. Entrambe sarebbero diventate conclamate icone gay. Conta davvero sapere se a Greta e a Marlene piacevano in egual misura uomini e donne, o se preferissero gli uni o le altre? Forse sì, e forse no. C’è persino una certa nobiltà, nel ”gossip”, quando lo si pone al servizio del Mito. Altrimenti, è solo fastidioso chiacchiericcio. Come molti miti, anche quello della Garbo ha generato omaggi, reinterpretazioni, rivisitazioni. Nel 1978 un altro grande profugo austriaco, Billy Wilder, si ispirò a Greta per il suo ultimo capolavoro: Fedora. Una specie di re-make onirico e sentimentale di Viale del tramonto. la storia di un produttore di mezza tacca che si danna l’anima per far tornare sugli schermi una diva che s’è ritirata da trent’anni e che pare aver scoperto il segreto dell’eterna giovinezza. Si scoprirà poi che la diva schiavizza, in un torbido rapporto sadomaso, la propria giovane figlia, costringendola a recitare il ruolo della sua reincarnazione miracolosamente preservata dall’infuriare del tempo. Il film comincia dove ”Anna Karenina” finisce: con il suicidio di una giovane donna velata di nero. Con un’uscita di scena, dunque, che invece di segnare la fine della storia, ne fa iniziare una nuova, e ugualmente avvincente.