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 2010  aprile 07 Mercoledì calendario

SYLVANO BUSSOTTI - "IO, AMICO DI ADORNO ORA FAREI MUSICA PER I SIMPSON"

Per uno che ha lavorato con Luciano Berio e John Cage possono stonare – è il caso di dire – l´elogio della canzonetta, le frequentazioni musicali tra Michael Jackson e Albano, o magari il festival di Sanremo. Provocazioni, scandaletti che Sylvano Bussotti, ottant´anni il prossimo anno, lascia cadere con quella distrazione tipica dei grandi. E che grande lo sia se ne è accorta anche Firenze che gli ha dedicato un intero mese di celebrazioni, tra musica pittura e teatro (bello il catalogo Corpi da musica, a cura di Luca Scarlini, che raccoglie testimonianze e i suoi dipinti). Perché Bussotti è uno e trino. Non sente molto la disciplina dei confini: scrive musica, dipinge e annota pensieri sulla carta con quel tocco di lievità che ne fa un artista insolito, al riparo del tempo e delle mode. Vado a trovarlo a Milano dove abita, in fondo a via del Giambellino. Zona di gaberiana memoria dove il nostro vive con il suo compagno Rocco, che mi attende con antica cortesia sui bordi di un ascensore che ci condurrà al decimo piano. Fuori piove e tira vento. Dentro un cortile anonimo avvolge questo spicchio di architettura milanese degli anni Settanta. Il maestro mi riceve nella mansarda. Tutto è ordinato: il pianoforte a mezzacoda, i libri nelle scaffalature, gli spartiti. Colpisce il gilè di lana, colore verde mela, che indossa: «Qui siamo più tranquilli», dice Bussotti. Dal basso sale un cupo ronzio di aspirapolvere: « la donna che fa le stanze», avverte premuroso Rocco che un momento dopo si allontana, come inghiottito dalle scale.
Contento, maestro, del modo in cui Firenze l´ha celebrata?
«La bella addormentata nell´orto si è risvegliata. Ma a parte gli scherzi sono felice che questa città, che io ho considerato chiusa nella sua beltà, si sia ricordata di me».
Lei è fiorentino?
«In una maniera scandalosa. Sono nato in una stradina che da Palazzo Vecchio va verso l´Arno. Ho vissuto a Firenze fino a 18 anni, poi ho cominciato a viaggiare: Parigi, New York, Francoforte soprattutto. Anche se confesso che a Firenze c´era Luigi Dallapiccola che mi tratteneva. Con lui fu il classico rapporto amore-odio, lo dico con tante virgolette».
Provi a togliere le virgolette.
«Non ho conosciuto nessuno che in ambito musicale in Italia fosse colto come lui. Ma non aveva per niente un carattere facile. Era meravigliosamente geloso delle cose che doveva sapere solo lui e che nessun altro doveva praticare. Sfoggiava citazioni, letture, amicizie, ma guai se qualcuno gli faceva ombra».
Un altro alla sua altezza fu Bruno Maderna.
« vero, ma con un carattere agli antipodi. Fu un fanciullo prodigio e un uomo di una generosità straordinaria. Negli ultimi anni, quando cominciò a stare male, si trascinò fino in Olanda pur di dirigere un mio lavoro».
Si può dire che la vostra generazione: lei, Nono, Berio, e quella immediatamente prima: Casella e Dallapiccola abbiate rappresentato una parte fondamentale della musica novecentesca. Come si è potuta verificare una tale concentrazione di talenti?
« lo spirito del tempo. Non sai mai dove e perché soffia. Thomas Mann diceva che la grande arte compare sulla superficie del mare poi improvvisamente si inabissa e non sai quando riapparirà né dove».
Ha conosciuto Mann?
«No, ma a questo proposito ricordo che Dallapiccola ci lesse una lettera che lo scrittore gli inviò per chiedergli lumi sui principi dodecafonici. A quel tempo Mann era in serrata polemica con Arnold Schönberg e voleva un parere autorevole, per questo lo chiese anche a Dallapiccola».
Con il Novecento la musica si complica enormemente. Perché?
«Perché tutto diventa rarefatto e sperimentale. Non accade solo in musica. Joyce in letteratura, Rothko o Rauschenberg in pittura fanno esattamente la stessa cosa con linguaggi differenti. A un certo punto il piacere sembra dipendere dalla complicazione della mente, dalle sue astrazioni».
Diciamo con una punta di profanazione che è una musica scarsamente orecchiabile.
« vero in parte. Come si fa a non lasciarsi coinvolgere dal fascino della musica di John Cage. Con lui ci conoscemmo a Darmstadt. Ero con un gruppo di musicisti tra cui Berio e Stockhausen. E Berio combinò allora una serie di concerti italiani per Cage che per l´occasione venne a Milano. Partecipò anche a Lascia o Raddoppia e alla fine vinse una somma con cui acquistò un pulmino Ford per la compagnia di Merce Cunningham».
Bizzarro, come quando lei andò al Festival di Sanremo.
«Beh, non è che cantassi o suonassi. Fui invitato da Baudo per festeggiare il centenario della Ricordi. C´ero io, Cecilia Gasdia, già grande, e Roberto Fabbriciani, famosissimo flautista. Proposi a Baudo un pezzo a quattro mani, ma lui si rifiutò. Volevo rendere l´atmosfera meno incombente, sdrammatizzare la musica alta. Poi dalle scale scese Eros Ramazzotti, credo fosse al suo debutto».
I suoi colleghi compositori storceranno il naso.
«Cosa vuole che me ne importi. Nei linguaggi del suono e della musica non vedo grandi differenze. A volte la canzonetta, che viene banalmente presentata come una cosa minore, è in realtà assai più bella e riuscita di tante pretenziose opere della grande musica. Lo capì perfettamente Proust che a proposito della musica popolare disse: è la grazia e il pensiero per milioni di persone».
Torniamo a John Cage.
«Con John fu un rapporto profondissimo e fecondo. Quando venne a Milano io ero una specie di "negro" che lavorava per Berio il quale, avendo una quantità impressionante di commissioni, ne passava alcune a me. E lo faceva fornendomi tutta una serie di indicazioni precise su cosa dovevo o non dovevo fare. Era imperioso, molto diverso dalla donna che lo sposò: Cathy Berberian, una creatura fantastica, una cantante suprema, dotata di una sostanza camaleontica. Ricordo un nostro recital a Parigi. Era divina, vestita d´azzurro e d´argento».
Le sue frequentazioni parigine comprendono l´amicizia con Barthes e Foucault. Com´erano fuori dall´aura del maestro?
«Con Roland siamo stati molto amici. Quando abitavo a Roma, le volte che egli veniva, era mio ospite. Lo incoraggiai a sviluppare il suo amore per la pittura e credo ne fu felice perché cominciò a produrre delle cose belle».
Aveva un segno molto giapponesizzante.
«Sì, ma faceva anche dei quadri astratti. Che raccolse in una galleria parigina che frequentavamo. Lì ogni tanto ci raggiungeva Michel Foucault. Barthes, con quella mitezza che gli aveva trasmesso la madre, era la discrezione in persona: nel vestire, nel parlare, nel modo di porgere le cose. Quanto a Foucault era molto sicuro di sé. Lo ricordo scendere da una grossa motocicletta. Il vestito di pelle nera contrastava con il cranio lucido. Erano due intelligenze supreme e opposte: teatrale e senza inibizioni quella di Michel, raffinata e talentosa quella di Roland. Con una certa impertinenza dissi a Barthes che doveva smettere di perdere tempo con la critica e scrivere un romanzo. Si affannò a rispondermi che scrivere un romanzo era un altro mestiere».
Le piace la provocazione?
«Un tempo potevo reputarla un ingrediente saporoso della vita. Un po´ come la frivolezza. Cesare Brandi mi scrisse: Sylvano è inutile, tanto non farai mai scandalo. Ma io non ho mai fatto lo scandalo per lo scandalo. Però quando si dovevano rompere le convenzioni ho provato ad esserci. Se no che artista sarei? Credo che l´arte non debba avere scopi. John Cage l´ha espresso in maniera definitiva. La sola vera forma di libertà la dà l´arte. il privilegio e a volte la condanna dell´artista. Ricordo che ne parlai anche con Adorno».
So che vi scambiaste varie lettere. Dove e quando vi conosceste?
«Quando esattamente non me lo ricordo. Erano i primi anni Sessanta. La prima volta che ci vedemmo fu a Lucca. Qualcuno disse, un po´ malignamente, che Adorno aveva il vezzo di frequentare gli stessi luoghi in cui era stato Nietzsche. Ma non aveva niente del nicciano tranne forse lo stile con cui scrisse Minima moralia. Era incredibile. Poteva attraversare la strada con le automobili che gli sfrecciavano accanto e lui, togliendosi il cappello, inventava al momento una specie di sceneggiata».
Ma il vostro fu anche un rapporto professionale?
«Quando terminai I semi di Gramsci e mostrai la composizione ad Adorno, lui mi disse che a differenza dell´avanguardia io ero stato il solo musicista in grado di comportarmi come un letterato che articola delle frasi».
Anche Adorno componeva, che giudizio dà della sua musica?
«Feci pubblicare la sua musica da Ricordi. Ancora non finiscono di rimproverarmi. Si ispirava a Alban Berg. Ma il fatto che non avesse una spiccata personalità musicale non lo trovo poi così scandaloso. Le sue composizioni sono datate ma non brutte. E poi per essere Adorno non aveva bisogno della musica».
E lei per essere Bussotti che cosa fa oggi?
«Per lungo tempo ho scelto il silenzio. Viviamo tempi orribili. Soprattutto politicamente. Ho finito di disegnare le scene e i costumi di un nuovo Pierrot lunaire per il teatro Dal Verme di Milano (unica rappresentazione stasera). Esco poco e non incontro quasi più nessuno. Con il mio compagno Rocco vediamo parecchia televisione. Molti artisti ostentano di non guardarla. Non me ne vergogno. Seguo gli oroscopi e adoro i Simpson, mi piacerebbe scriverci sopra una musica. Mi chiede se è una cattiva maestra. Non è né l´una né l´altra. solo un elettrodomestico, come l´aspirapolvere. Sente la donna che fa le pulizie? Ecco, la televisione è il mio aspiratutto».