ANNA SANDRI, La Stampa 7/4/2010, pagina 25, 7 aprile 2010
STERMINO I TOPI CON IL GIUSTO MENU’
Si riproducono più facilmente, trovano sempre più cibo e spesso riescono a resistere persino ai veleni di ultima generazione: signori, il super-ratto è servito. Lo dice anche l’etologo Danilo Mainardi, che punta l’indice soprattutto sull’abbondanza di rifiuti, condizione primaria per moltiplicare gli eserciti di roditori, piaga ormai sempre più grave nelle grandi città.
E pensare che il topo non è un animale soltanto denigrato: come l’orso, compagno di culla dei nostri bambini nella versione peluche, anche il topo ha una «letteratura» a volte favorevole, che lo rende animale piuttosto ambivalente. Abbiamo davanti agli occhi le scene di Nosferatu e della peste nel film di Herzog (con la terribile invasione dei topi), ma anche le piacevolezze di Walt Disney e del più recente e pluripremiato «Ratatouille» (Oscar come miglior film di animazione nel 2007), storia di un topo buongustaio che oltretutto non indulge nella grafica e nella sceneggiatura ai soliti melensi cliché sugli animali.
Mainardi, come si passa da Topolino all’aborrito topo di fogna?
«Attraverso l’infantilizzazione che venne operata da Walt Disney, uno che se ne intendeva. Topolino è stato ”costruito’ piano piano per essere simpatico. Infatti non è un vero topo, si comporta da uomo».
Il primo Mickey Mouse era nervosetto...
«Appunto, all’inizio era piuttosto antipatico, faceva i dispetti, vestiva braghette corte, aveva le gambette sottili e il muso molto appuntito. Non aveva i tratti antropomorfi che acquistò in seguito».
Come cambiò?
«E’ un processo molto interessante, avvenne un po’ alla volta: accentuarono in lui l’infantilismo, facendogli ad esempio occhi più grandi – inequivocabile segnale infantile – e accorciandogli il muso, che divenne più paffuto».
Walt Disney fece tutto da solo?
«No, lavorò con una squadra di grafici: esistono studi che mostrano le loro accurate ricerche e l’evoluzione del topolino».
Conoscevano i celebri studi di Lorenz, che studiò i «segnali infantili» comuni alle specie umana e animale?
«No, penso proprio di no. Quella di Lorenz è una storia parallela: lui alla fine degli Anni 40 e 50 descrisse per primo la particolare configurazione complessiva del volto dei bambini e dei cuccioli, che suscita negli adulti atteggiamenti affettivi. In teoria Walt Disney poteva conoscerli, ma non credo. Loro si basavano soltanto sulle reazioni degli spettatori: semplicemente vedevano che il topolino diventava sempre più simpatico man mano che assomigliava a un bambino».
E’ una costante, per i «personaggi animali» che devono commuovere.
«Infatti Gambadilegno ha le orecchie a punta, mentre i cuccioli del lupo sono più simpatici di lui: hanno il muso accorciato, sono più paffuti e non hanno le orecchie all’insù. Walt Disney ha giocato molto con infantilismo e con i cuccioli: con Bambi, ad esempio».
Il ratto reale, però, è un po’ diverso da Topolino,
«Eccome, è un nemico difficile, intelligente, sociale, opportunista. Si adatta, facilmente, è un animale che non è mai stato molto popolare. Infatti, quando c’è una disinfestazione, la chiamano senza tanti scrupoli ”derattizzazione”, mentre se devono intervenire ad esempio sui colombi parlano di ”specie problematiche”, un eufemismo. Sono molto cauti dal punto di vista della comunicazione. Pensare che i colombi stanno diventando un problema altrettanto serio... D’altra parte colombi e ratti vanno di pari passo».
Ovvero?
«C’entrano molto con il fatto che ci sono moltissime risorse nelle città. Ai colombi tanti danno da mangiare, i ratti il cibo se lo vanno a trovare nei cassonetti. In realtà non si può dire che ci siano troppi ratti e troppi colombi, ma che ci sono esattamente quelli che la città è in grado di mantenere. Sono i cittadini che lasciano loro le risorse».
Cioè, ci sono tanti ratti perché ci sono troppe risorse.
«Esattamente, e sconfiggerli è praticamente impossibile. Si possono fare semplicemente delle selezioni, così avremo animali più intelligenti e resistenti. La vera possibilità di eliminarli o quanto meno di controllarli è limitare le risorse a loro disposizione. Anche i predatori sono un’arma spuntata: i gatti ormai sono abitanti fissi dei condomini, non vanno più a caccia. Per cacciare un grosso topo ci vuole bel gatto cacciatore, uno di quelli bravi».
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Si fa presto a dire Francia. Ma lo sanno tutti che in Bretagna non si mangia come a Parigi. Lo sanno anche i topi che, frequentando i nostri cassonetti, conoscono non solo tutte le nostre abitudini e i nostri segreti, ma si fanno anche la bocca sui nostri avanzi. E allora, se la Francia ha un problema, è bene non generalizzare: «Farina di pesce al Nord, burro in abbondanza nella capitale».
Massimo Donadon è un industriale italiano noto in tutto il mondo ed è a suo modo un benemerito della società: ha dedicato tutta la vita a dare la caccia ai topi, ne ha sterminati milioni e milioni, e gioca con loro una partita fatta di tentazioni e di sapori. Finora ha sempre avuto la meglio, eppure non si fa illusioni: «Non finirà mai».
Dalla sua azienda di Carbonera, in provincia di Treviso (si chiama Max Bayer Deutschland, ma è italianissima), è partito con i suoi 50 tecnici per ogni città del mondo: a New York ha imbandito per i sorci irresistibili banchetti a base prevalente di margarina vegetale (e ne stroncava 10 quintali al giorno); in Olanda ci ha dato dentro con il salmone e il formaggio; dalle discariche tedesche è uscito vincitore, calcando sui grassi animali. Dieci anni fa non mancava di infilare nelle esche un tocco di Nutella, ma il ratto segue l’uomo e oggi, se non gli metti una grattugiatina di fondente extra, non ti si fila. A gennaio si va sul sicuro con le esche al panettone.
A Pechino, dove l’hanno chiamato d’urgenza quando erano appena iniziati i lavori per il villaggio olimpico e smosso il terreno s’erano viste scene infernali, ha confezionato al volo bocconcini di riso soffiato e dopo due settimane sono state rimosse tre tonnellate di pellicce grigiastre.
Il meglio, in fatto di creatività, l’ha dato a Dubai, dove li ha freddati con un menu che definisce «fusion»; nella sua Treviso è andato su zucchero filato e vaniglia e nessuno ha mai capito perché («comunque, oggi a Treviso c’è un topo ogni 100 abitanti, fantastico»). In Libia - il fronte più recente, dove è al lavoro in cinque città perché i libici prima di lanciarsi nel turismo vogliono fare un po’ di pulizia - è una strage a base di datteri e carne d’agnello.
Paese che vai, sorcio che trovi: «Lo abbiamo capito negli Anni 70. Già allora, tra un piatto di parmigiano grattugiato e un bel macinato di cavi elettrici, il topo non aveva dubbi e si lanciava sulla plastica. Se non metti in conto che il topo è intelligente e selettivo, non potrai mai contrastarlo».
Noi produciamo rifiuti, i topi di città appena scende la notte ci vanno a pasteggiare. Poi ci sono quelli che vanno all’ingrosso: per il topo da discarica, la plastica resta sempre irresistibile.
Per prenderli per la gola, Donadon piazza le sue prelibatezze in scatole dette «rat box», che dentro hanno un microchip: sulla base di quanti si infilano nella scatola attratti dall’odore, si fa il calcolo statistico di quanti ce ne sono nella zona.
In Italia, il cacciatore di sorci stima che ci siano 500 milioni di topi, e presume che il numero maggiore sia a Napoli, 12 per abitante: «Una città la guardi e capisci quanti topi ci sono dallo stato delle strade. Non dico rifiuti umidi: anche le cartacce per terra sono indice di ratti in zona». Nel mondo pensa che la massima concentrazione sia in India, «ma non si salva nessuno».
Ucciderli non basta: «Se resta la carogna, a parte il rischio di peste visti i grandi numeri, ai sopravvissuti arriva il segnale. Capiscono cosa ha ucciso e puoi buttare le tue esche». Il topo che ha mangiato le esche di Donadon, invece, esce tranquillo dalla scatola («solo qualcuno, troppo goloso, stramazza sul posto perché si è ingozzato»), e va a morire da tutt’altra parte dopo tre o quattro giorni: «Garantisco zero sofferenze». Una volta morto, si disidrata e si riduce a pura pelliccia. Raccapricciante, ma igienicamente perfetto.
«Nessuno ha messo nel conto che tra gli effetti collaterali della crisi globale c’è anche il proliferare dei topi: il nostro fatturato lo scorso anno è aumentato del 20%, questo va benissimo. Ma i piccoli Comuni non hanno più soldi per assegnare lavori di questo tipo in modo diretto. Fanno aste, e finisce per vincere il risparmio. Il topo si riproduce ogni 21 giorni: se molli la presa, sei spacciato».