Laura Cavestri, Giovanni Negri, Il Sole-24 Ore 6/4/2010;, 6 aprile 2010
QUANTE CAUSE PERDUTE PER I GIOVANI AVVOCATI
La tentazione dello stipendio fisso. E l’orgoglio dell’autonomia. La crisi morde, ma il fascino della toga non tramonta. Fosse anche solo come ammortizzatore sociale. E così il numero degli avvocati cresce senza sosta, sino a sfondare il muro dei 220mila legali, ma senza pause aumenta anche il numero dei legali nel limbo: avvocati a partita Iva, per esempio, con tutti gli oneri dell’assenza di garanzie e senza neppure l’onore di uno stipendio dignitoso. Figure ibride, che sfuggono anche all’occhiuta fotografia previdenziale della cassa forense, ma che nello stesso tempo rappresentano un forte segnale di proletarizzazione di una categoria chiave del nostro sistema di libere professioni.
I numeri, del resto, parlano chiaro e senza grande conforto per i giovani. Sotto i 45 anni si attesta il 60% dei professionisti che ogni giorno affollano le aule dei tribunali, ma questi guadagnano solo il 40% di un reddito globale che si sta facendo sempre più esiguo. Sino a fare apparire il 1994 – non più tardi di 16 anni fa – come una sbiadita età dell’oro in cui la media dei redditi e dei volumi d’affari toccò il tetto massimo. Poi un lento declino con qualche bagliore.
Ed è anche su questo versante che si misura la distanza rispetto alle esperienze di oltreconfine. Dove gli avvocati sono di meno, ma minori sono anche i pregiudizi, se non le aperte osti-lità, nei confronti del passaggio di quella linea d’ombra tra libera professione e lavoro dipendente. Qualche progetto pilota prende quota anche da noi, però. Nel tentativo di sfatare il luogo comune del «non è un paese per giovani» e, più prosaicamente, tenere legati giovani di buone se non ottime prospettive a studi tricolori che si trovano a dover competere in un mercato che è sempre più globale. E così spazio per best practice che assicurano periodi retribuiti per studio e maternità in cambio di un minimo preavviso per l’interruzione del rapporto.