JEAN-PHILIPPE RMY, Giulia Zonca, MATTIA BERNARDO BAGNOLI, La Stampa 6/4/2010, pagina 10, 6 aprile 2010
UCCISO LEADER AFRIKANER (3
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Come definire ciò che opprime il villaggio di Ventersdorp, là dov’è nato ed è stato ucciso, la sera del 3 aprile, Eugène Terreblanche? Non è la noia di una domenica di Pasqua in cui, tranne le chiese e le rivendite di alcol, tutto è chiuso, in questo bastione afrikaner del Sud Africa. E non è neppure il paesaggio tetro del «veldt», la grande prateria aperta dell’Africa meridionale, campi a perdita d’occhio e, come unico rilievo, silos grigi e allevamenti industriali di polli. Ciò che schiaccia Ventersdorp è la violenza razziale latente, quella violenza che era una delle specialità di Eugène Terreblanche insieme - ma in misura minore - alla poesia o la storia degli Afrikaner, i discendenti dei coloni olandesi e degli ugonotti francesi.
In questa regione agricola a un centinaio di chilometri a ovest della capitale, il leader dell’estrema destra, partigiano della supremazia bianca e dello sviluppo separato tra le razze, fondatore nel 1973 di quell’Awb (Movimento di Resistenza afrikaner) che ha una bandiera simile a quella dei nazi, già negli Anni 70 era profondamente irritato da ciò che considerava un ammorbidimento del regime dell’apartheid. Trent’anni dopo, nel 2001, era stato incarcerato per aver picchiato con una spranga di ferro uno dei suoi ex-dipendenti, un vigile nero, provocandogli lesioni cerebrali irreversibili.
Secondo quanto ha riferito il ministro per l’ordine pubblico, Nathi Mthathawa, Terreblanche è stato colpito a morte, sabato, da due uomini che lavoravano nella sua azienda agricola, uno di 15, l’altro di 28 anni. Entrambi neri, hanno raccontato alla polizia che il loro principale si rifiutava di pagare lo stipendio mensile di 300 rand (30 dollari): tra di loro è scoppiata una lite, Terreblanche li avrebbe aggrediti, loro si sarebbero difesi. Ora sono accusati di omicidio. Arma del delitto: un panga, un’arma tradizionale simile al machete.
In questa parte del Sud Africa, che dal 1994 fatica a immaginarsi in una condizione post-apartheid, i proprietari terrieri sono bianchi, i lavoratori neri. Ora la fattoria di Eugène Terreblanche è sbarrata e circondata dalla polizia. Già domenica i paramilitari dell’Awb sono arrivati con i loro pick-up, le uniformi color cachi e le bandiere dell’ex Repubblica Boera. Hanno l’aspetto di miliziani ipernutriti, esasperati per essere bloccati dagli sbarramenti della polizia. Giurano, tempestano, ma nessuno riesce a forzare la strada fino alla fattoria dove l’inchiesta segue il suo corso. Al momento sono solo un pugno di uomini, ma presto altri convergeranno da tutto il Paese su Ventersdorp. Il processo ai presunti assassini si farà nei dintorni. In previsione delle immaginabili violenze, la famiglia Terreblanche ha lanciato un laconico appello alla calma, mentre le forze di polizia, protetti da giubbotti antiproiettili, marcano il territorio.
I militanti dell’Awb indossano le uniformi metà scout, mezzi ranger: pantaloni corti ampi, calze lunghe, arma alla cintola. Qualcuno porta il badge «100% boero», qualcun altro sventola maldestramente la bandiera che richiama la svastica. Si è lontani dagli Anni 90, quando l’Awb rivendicava decine di migliaia di associati, organizzava attentanti dinamitardi e assassini e Eugène Terreblanche arrivava agli incontri caracollando su uno stallone.
Al municipio si sfiora l’alterco quando i sodali di Terreblanche cercano di entrare armati. All’interno c’è una delegazione del governo venuta a calmare gli spiriti, guidata dal ministro per l’ordine pubblico, Nathi Mthathawa, che supplica: «Per favore, non idealizziamo la violenza!». E’ esattamente questo il punto nel Sud Africa, da qualche tempo in preda a un deterioramento dei rapporti tra bianchi e neri. Un uomo, Julius Malema, il ventinovenne presidente della sezione giovani dell’African National Congress (Anc), il Partito del Congresso al potere, catalizza tutto il risentimento nero. Qualche giorno fa, davanti agli studenti dell’università di Johannesburg, ha intonato una vecchia canzone della lotta anti-apartheid, «Dubula amabhunu baya raypha» («uccidete i boeri, sono degli stupratori»).
Davanti alla scalinata del municipio di Ventersdorp, anche il segretario generale dell’Awb, Andre Visagie, lancia il suo appello alla violenza: «La morte di Terreblanche è una dichiarazione di guerra della comunità nera alla comunità bianca. Vendicheremo la morte di Terreblanche». Ai neri manda a dire: «Tornate nelle vostre tribù». Agli afrikaner dà un consiglio: «Dovreste essere armati, ora... un bianco in Sud Africa è un bianco in pericolo di morte».
Nessuno sa quale sarà l’impatto di queste parole nel difficile contesto della coesistenza razziale. Domenica sera in tv Jacob Zuma, il presidente sudafricano, ha fatto appello alla calma e all’unità, implorando: «Tutti dobbiamo dare prova di responsabilità in questo Paese, un Paese che lavora con accanimento per la riconciliazione».
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Nato nel 1941, Eugène Terreblanche - l’incarnazione dell’opposizione bianca all’abolizione dell’apartheid, E.T. per i suoi nemici - era il nipote di un generale afrikaner della guerra anglo-boera. Era stato poliziotto nelle unità speciali incaricate della protezione dei responsabili dello Stato, poi agricoltore. Nel 1973, con altri sei estremisti di destra, fondò il Movimento di Resistenza Afrikaner (AWB) per proteggere i diritti dei discendenti dei boeri. Abile oratore, vedeva la fine dell’apartheid come una resa del Paese al comunismo e per questo tentò la carta della violenza, minacciando di far scoppiare una guerra civile su larga scala. Condannato per aver pestato un suo ex dipendente e scarcerato per buona condotta nel 2005, si è proclamò «born again» - «cristiano rinato», convertito alla chiesa evangelica. (In foto i suoi sostenitori portano fiori nel luogo in cui è stato ucciso).
JEAN-PHILIPPE RMY
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Gli stadi sono stati consegnati a tempo record e uno ha il tetto che perde, l’altro una riserva di gas custodita dove non dovrebbe: l’ansia di essere pronti sta diventando il più grosso problema del Sud Africa a due mesi dai Mondiali di calcio.
Essere i primi in Africa significa essere tutta l’Africa e reggere lo scetticismo globale rende gli organizzatori nervosi. Hanno reagito allo sciopero dei lavoratori reclutando chiunque e hanno consegnato i dieci impianti entro la data prevista dalla Fifa, una faticaccia che non è valsa nemmeno una tregua. Mancano strade, mancano camere per i 480 mila turisti previsti, secondo i responsabili manca un po’ di fiducia nelle capacità dei locali, secondo molte associazioni manca l’esperienza per occuparsi di un evento così.
Moses Mabhida è l’ultimo problema in una lista inesauribile. lo stadio di Durban e nei sotterranei c’è una riserva di gas, mezza tonnellata: non è fuori norma, è vigilata e tutte le regole sono state rispettate solo che non è in condizione di non nuocere in caso di perdite o incidenti ed è partita la lotta tra gli esperti. Chi giura che non è possibile fare meglio e chi sostiene che in altri posti si sarebbe fatto, che il gas poteva essere seppellito in profondità o posizionato all’esterno. Michael Sutcliffe, il sindaco della città, sostiene che è il tipico caso in cui «il problema esiste solo perché siamo in Sudafrica e gli stranieri cercano di dimostrare che non siamo in grado». Nervi scoperti, perché qualsiasi Paese viene passato allo scanner prima di un Mondiale o un’Olimpiade, solo che questo si gioca più di altri. «High reward, high risk», grosse ricompense e grossi rischi, riassume Morné du Plessis, uno che ha già visto un miracolo sportivo in Sudafrica. una gloria del rugby, uno dei capitani più amati degli Springboks e anche il manager della nazionale che ha vinto il Mondiale ospitato nel 1995, il primo momento di unione post apartheid. Questo testimone della storia scommette sul suo popolo senza concedere troppi sconti: «So che vi stupiremo, ma sono contento che ci siano tanti occhi puntati su di noi, perché gli sbagli possano essere corretti».
Gli occhi hanno fotografato Blikkiesdorp, un campo rifugiati temporaneo che doveva essere una base per i senzatetto e si è trasformato in un piccolo inferno. Sta fuori Città del Capo ed è costato 2,9 milioni di dollari. Pensato per 650 persone, per lo più ragazzini che era meglio spostare dalla strada, è già fuori controllo. Le 3000 baracche sono sovraffollate, la polizia impedisce alla gente di uscire, le condizione igieniche sono tremende e i pasti scarsi: «Li deportano», dicono molti dei sudafricani che da giorni guardano le colonne di camioncini scaricare disperati. Alcuni sono stati rastrellati in giro, altri proprio deportati perché occupavano, più o meno abusivamente, strutture rimesse a nuovo per le squadre di calcio. il caso dello Spes Bona Hostel, nel distretto di Athlone, l’ostello è vicino a un campo destinato agli allenamenti delle nazionali e gli organizzatori non volevano gli sfollati come pubblico permanente. I residenti sono stati «invitati ad abbandonare la struttura per qualche mese», gli hanno garantito un luogo allo stesso livello e hanno offerto cibo per un paio di giorni. Abbastanza per spingere un centinaio di persone dentro quello che il «Guardian» ha ribattezzato «Campo di concentramento».
Dalle descrizioni e dalle immagini, che ormai circolano in quantità, sembra di stare davanti a «District 9», controverso film sudafricano realizzato dal documentarista Neill Blomkamp. Un altro tassello del Sud Africa in bilico. Uscito nelle sale l’anno scorso, candidato a quattro Oscar, racconta di uno slum (District 9, appunto) costruito alla periferia di Johannesburg per segregare degli alieni arrivati chissà come sulla terra e ribattezzati gamberoni. Il distretto della vergogna è la fotocopia di un campo profughi realmente esistito, il distretto 6 di Città del Capo, baraccopoli per i neri durante l’apartheid, e molti politici sudafricani non hanno apprezzato la storia e l’immagine di un Paese ancora prigioniero del passato. Ecco, la Coppa del Mondo serve a dare la spinta definitiva alla Rainbow Nation, la nazione arcobaleno al bivio tra il futuro e gli incubi.
Giulia Zonca
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I colossi del settore minerario quotati in borsa nel listino londinese FTSE 100 sono sulle spine. Temono, infatti, che l’uccisione di Eugene Terreblanche, leader del movimento sudafricano per la supremazia bianca, possa scatenare un’ondata di violenza a sfondo razziale. Stando agli analisti, come un gigantesco domino i disordini potrebbero portare a interruzioni nella linea produttiva e causare così picchi improvvisi nel costo delle materie prime.Un’ipotesi davvero inquietante per chi come l’Anglo American, la Rio Tinto, la BHP Billiton e la Xstrata - che tutte insieme valgono il 10 per cento del listino londinese - ha investito ingenti quantità di denaro nel Sud Africa.
«Questo – ha sottolineato un alto dirigente sotto garanzia di anonimato al Daily Telegraph – è uno dei rischi più grandi che corre oggi il settore minerario sudafricano». I quattro colossi, insomma, hanno gli occhi puntati sul paese africano e seguono gli sviluppi della vicenda Terreblanche con estremo interesse. La questione dei contratti accordati alle grandi compagnie internazionali per lo sfruttamento dei giacimenti minerari non ha d’altra parte tardato a far capolino sulla scena. Dallo Zimbabwe Julius Malema, leader dell’influente ANC Youth League, l’ala giovanile dell’African National Congress, ha espresso il desiderio che le miniere tornino sotto il controllo della maggioranza nera del paese. «Hanno sfruttato i giacimenti del Sud Africa abbastanza a lungo», ha detto Malema. «Vogliamo le miniere», ha poi tuonato. «Ora è arrivato il nostro turno».
Malema, è opportuno ricordarlo, non è nuovo a sparate di questo tipo.Sono tre mesi che batte sul tasto della nazionalizzazione dei giacimenti e non ha reso facile la vita del governo sudafricano con i suoi aperti elogi alla politica delle confische delle fattorie straniere imposta nel vicino Zimbabwe dal presidente-dittatore Robert Mugabe. «Il disinvolto Malema – scrive il Daily Telegraph – è largamente ritenuto responsabile di aver istigato le violenze contro i proprietari terrieri bianchi, in particolar modo dopo aver cantato una canzone che risale all’epoca dell’apartheid in cui si esorta a ”uccidere i Boeri”».
Detto questo, Susan Shabangu, ministro sudafricano per le miniere, ha liquidato le uscite di Malema definendole «flessioni muscolari intellettuali» e ha precisato che la nazionalizzazione non avrà luogo, per lo meno «nell’arco della mia vita».
Dialettica politica interna a parte, non è un mistero che la questione delle miniere va a toccare tasti molto sensibili. Stando al South African Department of Minerals and Energy, infatti, lo Stato africano possiede l’85 per cento delle riserve globali di platino, essenziale per la costruzione di convertitori catalitici per autoveicoli, l’80 per cento delle riserve di manganese e il 73 per cento di quelle di cromo, usato per produrre acciaio inossidabile. Nonché significative riserve di oro, titanio e zirconio. Un patrimonio imponente di materie prime che fa gola a più di una multinazionale. Che però ora temono come fumo negli occhi l’arrivo d’instabilità e disordini.
«Se ai problemi che il Sudafrica già ha si dovesse aggiungere anche questo - ha fatto notare John Meyer, capo del settore minerario presso l’azienda di broker Fairfax - gli investimenti internazionali andranno a finire in altri paesi». «Altre nazioni africane come il Mozambico e il Burkina Faso - ha proseguito - si stanno aprendo al denaro estero. Il vantaggio del Sudafrica sono le sue infrastrutture, ma questi ultimi sviluppi potrebbero indurre le compagnie a cercare paesi più sicuri dove investire».
MATTIA BERNARDO BAGNOLI