CARLO BERTINI, La Stampa 6/4/2010, pagina 5, 6 aprile 2010
TAGLIARE STIPENDIO AI POLITICI
Dalla notte di martedì 30 marzo, cioè dal giorno dopo le elezioni regionali, il rebus che affligge i vertici del Pd è se convenga o meno contrapporre una proposta organica di riforme al pacchetto che la maggioranza metterà a punto per sfidare l’opposizione. Un rebus con molte variabili in campo che verrà sciolto sabato 17 aprile dalla direzione del partito, convocata dal segretario per soppesare il rischio bluff, «perché ora il problema è capire se il centrodestra le riforme le vuole fare davvero. E un confronto è possibile solo se funziona il Parlamento».
Ma intanto, sottotraccia, in attesa di aggredire il nodo delle modifiche costituzionali, un primo tema che registra un lavorio di dirigenti e tecnici di primo piano del Pd e che mette d’accordo le varie anime del partito è quello che Bersani ha ribattezzato «una Maastricht dei costi della politica»: una proposta di riforma che punti innanzitutto a ridurre gli stipendi dei parlamentari del 20-30% in meno rispetto alle retribuzioni attuali, pari a circa 5.400 euro netti di indennità mensile, a cui si sommano 4 mila euro di diaria più 4.200 euro di spese per il rapporto con i collegi e altri rimborsi di viaggio per gli eletti che devono raggiungere la capitale.
Una proposta che servirebbe anche a dare un primo segnale concreto della volontà dei «Democrats» di non sottovalutare l’insofferenza degli italiani verso il Palazzo, confermata dalla lettura dei dati sull’astensione in crescita e sul successo delle liste dei ”grillini”. «Prendiamo quattro Paesi paragonabili al nostro - ha detto Bersani pochi giorni prima del voto - e vediamo stipendi dei parlamentari e tutto il resto», perché in gioco c’è «la legittimazione della politica».
Già da qualche mese, il segretario aveva affidato a Gabriele Albonetti, uno dei tre questori della Camera, esperto della materia, la ”mission” di studiare i sistemi retributivi dei parlamentari di alcuni paesi europei simili all’Italia per elaborare una proposta di legge che individui una soglia di remunerazione, mixata ad una serie di benefit obbligati, meno indigesta alla pubblica opinione. In queste settimane il lavoro è andato avanti e il Pd vorrebbe arrivare a farne una prima bandiera da sventolare, magari in coincidenza con l’apertura del grande cantiere delle riforme.
Il numero due del Pd, Enrico Letta, in un’intervista uscita domenica sul Sole 24 Ore, indicava quattro punti chiave che dovrebbero ispirare un pacchetto di riforme: premier forte, nuova legge elettorale, una sola Camera e riduzione dei parlamentari. E su quest’ultimo tema, uno dei primi fronti da aprire è appunto quello degli stipendi degli onorevoli. «Dobbiamo smetterla - spiega Letta - di essere il paese con le retribuzioni più elevate per deputati e senatori e dobbiamo allinearci alla media dei paesi europei. Certo nessuno immagina di rapportarsi ai colleghi lettoni o lussemburghesi, ma ai paesi più simili a noi sì».
La questione non è semplice e si rischia la facile demagogia, basta infatti addentrarsi nella giungla di benefit concessi agli onorevoli oltre confine per vedere che anche loro non se la passano male. «Una delle voci su cui lavorare - chiarisce però Letta - sono i soldi per gli assistenti parlamentari che devono essere condizionati alla formula adottata a Bruxelles per gli europarlamentari: chi vuole indica un modello contrattuale con cui regolarizzare un suo assistente, ma bisogna evitare quanto avviene in Italia, dove chi non assume un collaboratore intasca lo stesso 4 mila euro di rimborso».