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 2010  aprile 06 Martedì calendario

3 articoli - 100 ANNI DI HELENIO HERRERA IL MAGO CHE CAMBIO’ IL CALCIO – Sabato saranno cent’anni dalla nascita di Helenio Herrera, il tecnico che ha vinto tutto, con l’Inter (tre scudetti, due Coppe dei Campioni, due Intercontinentali), prima dell’Inter (Atletico Madrid e Barcellona) e dopo l’Inter (Coppa Italia con la Roma)

3 articoli - 100 ANNI DI HELENIO HERRERA IL MAGO CHE CAMBIO’ IL CALCIO – Sabato saranno cent’anni dalla nascita di Helenio Herrera, il tecnico che ha vinto tutto, con l’Inter (tre scudetti, due Coppe dei Campioni, due Intercontinentali), prima dell’Inter (Atletico Madrid e Barcellona) e dopo l’Inter (Coppa Italia con la Roma). Che cosa rimane della lezione del Mago, nel calcio del terzo millennio? Primo punto: il ruolo dell’allenatore. Non è vero che prima di Herrera gli allenatori fossero illustri sconosciuti: da Pozzo a Winterbotton, da Guttman a Feola, da Viani a Bernardini, di grandi tecnici ce n’erano stati tanti. Herrera, però, è stato il primo grande propagandista del ruolo, il miglior sponsor che la categoria potesse trovare, perché era stato capace di convincere tutti che l’allenatore era la figura centrale di un club, forse non più bravo, ma strategicamente più importante persino dei giocatori. Il concetto era semplice: se il calcio è un gioco di squadra, deve emergere il ruolo di chi mette l’orchestra nella condizione di suonare nel modo migliore. Grazie ad Herrera, i tecnici hanno avuto un doppio vantaggio: il loro ruolo, all’interno di un club, ha acquistato un’importanza decisiva e come conseguenza, sono aumentati i loro guadagni, al punto da eguagliare o superare gli ingaggi dei medesimi calciatori. Le critiche, spesso eccessive, così come gli elogi sono direttamente proporzionali all’acquisita autorevolezza della loro posizione. Secondo punto: la rivoluzione tecnico-tattica. Quando il 22 maggio ”60, Herrera va a Udine per osservare l’Inter (contratto già firmato), che avrebbe allenato dal 1° agosto, vede una squadra stanca e sofferente. Ma è tutto il calcio italiano che gli appare ripiegato su se stesso. Fin dal primo allenamento a San Pellegrino, Herrera cambia programmi, sistemi, tradizioni, introducendo novità epocali, a cominciare dalla preparazione atletica. La pietra angolare è quella dell’intensità degli allenamenti ed è per questo che pretende massima concentrazione e attenzione. Da questo derivano velocità nel gioco («todo bien, pero falta el ritmo», dirà dopo la prima settimana), pressing («taca la bala»), training autogeno («vinceremo tutto e contro tutti»), sintetizzati nei cartelli appesi nello spogliatoio. Ha ricordato Mario Corso: «Quei cartelli saranno stati anche folkloristici, ma quando ci siamo accorti che, seguendo quegli slogan, i risultati arrivavano, abbiamo cominciato a crederci». Terzo punto: la professionalità. La sua storia privata, l’infanzia e la giovinezza trascorse nelle difficoltà economiche gli avevano insegnato ad aggredire la vita e a non fare sconti a nessuno pur di arrivare in alto. All’inizio degli anni Sessanta quello del calciatore era ancora un mestiere serio, ma non troppo, nel senso che concedeva qualcosa alla teatralità del ruolo. Herrera, all’Inter, istituzionalizzò i ritiri, all’inizio interminabili (dal mercoledì), poi più leggeri. Ma per tutti la regola era in un cartello: «Chi non dà tutto, non dà niente». Attraverso il lavoro, convinceva i suoi giocatori a non aver paura di nulla. Quarto punto: il gioco verticale. Essendo un grande propagandista di se stesso, Herrera ha sempre accettato le leggende, compresa quella secondo cui l’Inter fosse una squadra capace di esaltarsi solo nel catenaccio. In realtà, era vero il contrario, visto che giocava con un terzino d’attacco (Facchetti), due attaccanti ( Mazzola e un altro), un’ala d’attacco (Jair) e un genio (Corso), più un regista come Suarez. In realtà poche squadre al mondo sanno ancor oggi esprimere un calcio così efficace e verticale. Per conferma riguardare l’azione del 3-0 di Inter-Liverpool (12 maggio ”65). Quinto punto: la conoscenza degli avversari. In un’epoca senza dvd, sapeva tutto di tutti, perché aveva informatori nel mondo. E difficilmente si lasciava sorprendere dalle mosse dell’allenatore avversario. La sintesi è nelle parole di Sandro Mazzola: «Di Herrera si possono dire tante cose, ma nessuno può negare che sia stato in anticipo sui tempi del pallone di almeno trent’anni. Senza esagerare». Fabio Monti QUELLA PAGINA DI APPUNTI PER MIO PADRE - La storia che racconterò ha come protagonisti due personaggi. Uno è alto, giovane, col mondo davanti e lo chiamano il «gigante di Treviglio»; l’altro è basso, ha qualche anno in più, il mondo l’ha già girato parecchio e lo chiamano il Mago. Un giorno i due si incontrano su un campo di calcio della periferia di Milano; il ragazzo sta correndo con scatto da centometrista verso un pallone mentre l’altro l’osserva con attenzione; quella corsa da Ribot non lascia indifferente l’istrione che appena torna a casa prende nota sul suo diario e ne tira fuori una profezia. I due partono da Roma in un giorno di maggio del 1961 e da lì conquistano Italia, Europa e mondo intero; è un viaggio di iniziazione in cui c’è posto per la gloria, per emozioni a non finire, per tante vittorie e qualche sconfitta, come nella vita va. C’erano una volta il gigante Facchetti, il mago Herrera, una squadra invincibile con un Angelo presidente. Scrivo «c’era» ma più giusto sarebbe «ci sarà», perché il tempo migliore per raccontare un sogno sarebbe il futuro, per credere che quella meraviglia non sia svanita per sempre e che la storia più bella debba ancora arrivare. Il sogno continua ma i suoi personaggi decidono di prendere strade diverse; si salutano un’ultima volta al centro del campo che li vide di fronte tempo fa; poco prima di congedarsi il Mago lascia al gigante il suo diario col segno in una pagina in cui cerchiate rosse spiccano alcune parole, «il giocatore... importanza dell’aspetto mentale... l’allenatore». L’alchimia stava lì in mezzo? Nessuno lo saprà mai, eccetto loro; a noi restano stralci di cronache, foto, filmati e i sogni appunto... «Chiudi gli occhi e non sai quanto, quanto a lungo puoi durare, chiudi gli occhi e ti ritrovi col gigante e il Mago». Gianfelice Facchetti «COME PIANGEVA SE RIPENSAVA ALLA MAMMA» – Guai, se lo sapesse. Guai a noi se Helenio Herrera sapesse che, il 10 aprile, celebreremo il centenario della sua nascita, lui che sosteneva di essere nato non nel 1910, ma nel 1916. Riuscendo addirittura a far mettere sul suo passaporto argentino la data a lui più gradita. Quel documento è uno degli infiniti (e tutti emozionanti) ricordi di Helenio Herrera che si possono vedere recandosi all’ultimo piano di un bel palazzo dietro al ponte di Rialto, a Venezia. stata l’ultima casa del Mago, quella in cui è vissuto fino al 9 novembre 1997 con la terza moglie, Fiora Gandolfi, giornalista ai tempi del loro incontro, oggi fotografa, pittrice e custode della memoria di HH. Com’era Helenio lontano dal campo e dai riflettori? «Mi era stato raccontato in maniera un po’ buffonesca e limitativa. Per cui quando mi sono trovata davanti lui ho scoperto una persona straordinaria. Che spaziava tra varie culture e che era molto diverso da come si diceva. Io ho fatto la scuola francese, per cui abbiamo subito cominciato a parlare in quella lingua». Che cosa la colpì di lui? «Era passione spagnola, organizzazione e mentalità francese: per esempio, in francese contava. Se prevaleva l’emotività passava allo spagnolo. Aveva anche un notevole senso estetico che poi avrebbe sviluppato in Italia». Che cos’era l’Italia per lui? «Dell’Italia Helenio vedeva prima di tutto la bellezza. E la disorganizzazione. Era molto strutturato, molto preciso. Qui trovava che ci fosse molta confusione». E lui si rifugiava nel calcio. «Helenio era un monaco. Un monaco del calcio. Continuò a esserlo anche quando smise di allenare. E scoprì la domenica. Lui non sapeva che i negozi restavano chiusi». Non si apriva neanche con lei? «Con me piangeva. Pensando alla mamma. Che in effetti fu una mamma straordinaria, come tutta la famiglia. Il padre era un anarchico anticlericale, scappato dalla Spagna dopo l’attentato degli anarchici al re Alfonso XIII, nel 1906. Ed era pure figlio illegittimo. La nonna di Helenio era la ragazza più bella di Estepona, in Andalusia, e aveva un fidanzato che partì per Cuba e le spedì i documenti del matrimonio. Ma il postino, innamorato di questa donna bellissima, bruciava tutte le lettere per lei. Che, incinta, non ricevette mai nulla e si ritrovò con questo bambino che, nel ricordo del padre, ha allevato nella purezza assoluta, insegnandogli a essere onesto e corretto». E il Mago era davvero così? «Sì. A parte per le donne. Dopo la sua morte, ho saputo che ci aveva provato con tutte le mie amiche. Ma lui pensava che fare l’amore fosse una cosa positiva, che dà vitalità, secondo la tradizione orientale, perché non aveva l’idea cattolica del senso di colpa. Non a caso è stato lui a portare per primo le mogli in ritiro. Diceva che sono tranquillizzanti». Altre scoperte? «Io, che venivo da una famiglia più tradizionale, da Herrera ho imparato tantissimo. A non avere paura di niente. Che il peggio è pensare di fare le cose: meglio farle subito, che è molto più facile. Non aver paura del dolore». José Mourinho è il suo erede? «Si vede che ha classe, Mourinho. elegante. E poi è bello. Pure Helenio era bello, ma più spagnolo, con una faccia più verticale. Mourinho ha la faccia più tonda, dei celtiberi».  vero che vi siete sentiti per telefono? «Sì. Gli avevo mandato ”’Tacalabala’’, uno dei miei libri su Helenio. Mourinho mi ha chiamato a casa per ringraziarmi, un bel po’ dopo la mezzanotte. Mi ha detto di aver sempre ammirato il suo lavoro, e di averlo studiato molto». Che cosa le manca di Helenio? «Le litigate. Litigavamo su tutto, visti i nostri caratteri. Guidava come un delinquente. A un certo punto gli vennero le cataratte, e fu operato. Allora guidando mi chiedeva: che cos’è quella macchia grigia là in fondo? E io: un camion rosso targato…». Tommaso Pellizzari