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 2010  aprile 06 Martedì calendario

ABATANTUONO: DIVENTO REGISTA CON UNA FICTION SUL RAZZISMO’

Chissà perché, sembra che non si siano mai lasciati, Diego Abatantuono, Fabrizio Bentivoglio e Gabriele Salvatores. «Gabriele - dice Diego che presto esordirà come regista - l’ho ritrovato altre cinque volte, sei con Happy Family che sta andando molto bene»: 3 milioni in 9 giorni, «come numero di spettatori siamo primi, vedere i film in 3D costa di più». «Era dai tempi di Turné, 20 anni fa, che non lavoravamo tutti e tre insieme. L’impressione però è giusta, me lo dicono in tanti. Siamo un meccanismo a orologeria, come un trio di jazz: cambi la base, aggiungi gli assoli. Ma lo stile è quello».
Qualcosa in comune col suo personaggio di Happy Family, che tra una canna e l’altra porta barche nuove ai ricchi? «No, ho visto tutta la Commedia all’italiana con Sordi, Gassman, Manfredi, ed erano credibili qualunque cosa facessero. Se reciti con naturalezza, è normale che il personaggio ti somigli». Diego nel modo di fare ricorda un po’ Gassman, monumentali e fragili, la sensibilità mascherata. «Ho bisogno di stimoli nuovi. Non l’avevo mai voluto fare il regista. Ho deciso di buttarmi. Con leggerezza. In Area Paradiso debutterò alla regia, un film per la tv sull’integrazione e la disgregazione etnica. Mi dividerò il compito con un amico, un ragazzo, Armando Trivellini. Avrò anche una parte. Sarà per Mediaset. Voglio vedere se sono capace».
Lei crede nell’amicizia, ma le delusioni maggiori le ha avute dagli amici e non dalle donne. «Proprio perché ci credo molto... Non ne ho avute tante. La più violenta ha determinato dei grossi problemi alla mia carriera, risale a quando in due soli anni feci 12-13 film che incassarono l’ira di Dio: Il tango della gelosia, I Fichissimi, Eccezzziunale... veramente, Viuuulentemente mia ». Lei era il terroncello trasferito al Nord. «Mi fidai di un sedicente amico, fui mal gestito e bruciai il mio personaggio. Un danno economico enorme e chi mi era vicino traeva tutti i vantaggi, un tradimento non indolore».
Fu ingenuo? «Se un commercialista non ti paga le tasse... Non è che gli telefoni tutti i giorni. Poi un altro collaboratore mi ha rubato un libretto al portatore. Alla fine sono rimasto da solo». E cos’ha fatto? «Mi sono rimboccato le maniche decidendo di cavalcare il periodo di delusione. Solo che i debiti andavano pagati, nel frattempo mi ero comprato una casa credendo di avere i soldi. Un amico mi avrebbe detto: Non prenderla ora. Mi sono trovato indebitato e con un personaggio esaurito. L’errore più grave sarebbe stato di raschiare il barile, portando il personaggio nei vari film corali tipo Vacanze di Natale o I Pompieri. Mi sono tolto dal mercato per due-tre anni, ho fatto teatro per pagare i debiti aspettando nuove occasioni. Ho avuto la fortuna di trovare un produttore intelligente, onesto e ambizioso come Maurizio Totti».
Fu Pupi Avati a sdoganarla? «Mi auguravo di incontrarlo. Un giorno ero andato a trovare una mia ex fidanzata; lei aveva un mio vecchio cellulare, squillò, fatalità risposi io». Era Pupi Avati. «Mi offrì Regalo di Natale e mi fece conoscere come attore drammatico. La fortuna fu che ero ancora molto giovane quando mi precipitò il mondo addosso. Sento Gianni Morandi che dice a 30 anni ho rialzato la testa, e penso che io ne avevo 27. Mi son trovato a ricominciare all’età che nel nostro mondo è l’inizio per gli altri. Fu un’esperienza dura ma utile. Un po’ l’intuizione di togliermi dal mercato, un po’ la fortuna che cambiò giro... C’è gente che non ce l’ha mai, la fortuna». Quella truffa di un amico l’ha cambiata? «Assolutamente no. Ho capito che ci sono persone di cui diffidare».
E lei, come attore, si sente in credito o in debito? «Come opportunità, in credito. Sarebbe un grande onore lavorare con Lucchetti, Ozpetek, Virzì». Un film in Usa? «Ci ho rinunciato. Parlo male l’inglese e le battute devo capirle, mi girerebbe troppo ripeterle a pappagallo. Ho lavorato con registi che sono riusciti a conoscermi, anche se ho capito che la mia immagine a volte è ingombrante». Le sue ospitate sul calcio le hanno alienato delle simpatie al cinema? «Questa è una strana leggenda. È un anno che non vado in tv a Controcampo e la gente per strada mi ferma: devi dire a Mughini...».
È vero che ha fama di rompiscatole? «Sai quelle dicerie che vanno avanti per tutta la vita? Sono uno che sul set è sempre puntuale ma mi danno del ritardatario; sono uno che ha sempre gente attorno, magari mi affeziono ai truccatori, al prossimo film li segnalo e mi dicono: eh, quel rompiscatole di Abatantuono; sono uno che ha animate discussioni coi figli, che adoro, ma tre minuti dopo c’è il sorriso». Perché i film italiani sono affetti da «familismo» e corna? «Ricordo che mio papà diceva di andare al bar e usciva di casa tutto profumato: qualche dubbio onestamente lo faceva venire. L’Italia raccontata nelle commedie di una volta era quella lì, il grande cinema trattava la famiglia dal punto di vista maschile. Oggi si parla di incomprensioni coi figli. Le commedie brillanti, il nostro fiore all’occhiello, sono state sottovalutate da una generazione di intellettuali, chi dice per incapacità chi per snobismo». Il cinema italiano racconta poco la vita, i problemi del giorno, la società multietnica. «Io nella prima regia scendo in campo su questo tema».
Ma chi capisce più di calcio, lei o Teo Teocoli? «Di spettacolo lui, di calcio io». Chi vincerà? «L’Inter». Parola di milanista.
Valerio Cappelli