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 2010  aprile 06 Martedì calendario

AUTOBIOGRAFIA DI VIA PADOVA - «E

tu dille che questo sarà il quartiere degli artisti, che è un buon investimento, che sarà come Brera quarant’anni fa, o il Ticinese o l’Isola, o come quel quartiere di Parigi, Belleville».
Quale miglior consiglio, per un piazzista immobiliare non meno disperato che ubriaco, in un bar gestito da un milanese del Bangladesh, tra un pusher marocchino e una prostituta brasiliana, gli indiani del phone-center e il peruviano del negozio accanto, con l’odore dei polli grigliati in garage per il ristorante latino-cinese, i gratta-e-vinci di ieri sul marciapiede e l’eterno rumore delle poker-machine in sottofondo? Quale miglior consiglio’ per uno così’ che provare almeno a sognare la sua via Padova promossa un giorno a topos letterario, affatto come la Belleville di Pennac e Malaussène? Quella via Padova di Milano – ricordate? – quella del mese di febbraio, dell’egiziano ucciso dai sudamericani e delle macchine rovesciate per la rabbia, che poi era via Padova anche dieci anni fa, quando il morto fu un gioielliere italiano come quelli che l’avevano ammazzato, tutti italiani più un olandese, in realtà: strada melting-pot a uso e consumo di cronaca e campagne elettorali, per lo più. Eppure anche, guarda un po’, strada di facce e persone, di storie e progetti e pezzi di vita, quelli impauriti e quelli che non, storie di amori e gente che ce la mette tutta, e magari a volte ce la fa, e magari a volte è anche felice. Insomma la strada (anche) di tutto quello che né giornali né tv né sociologi raccontano: del resto è per questo, da sempre, che esistono i romanzi.
Come appunto, adesso, I diavoli di via Padova: romanzo di esordio del giornalista Matteo Speroni per l’editore Cooper che nel fritto misto umano di quel quartiere allungato tra piazzale Loreto e la tangenziale est di Milano non solo vive da una vita, ma – dice – vive «bene»: «Non che sia sempre facile – sorride – ma forse che la vita lo è?».
E così eccolo là, il suo protagonista. Un uomo dall’età indefinita, che vive da solo in una (non ristrutturata, anzi) casa di ringhiera col portone di sotto che per aprirlo serve tutta una tecnica. Telesio, detto Tesio, detto Tes, è uno che non lavora ma in qualche modo sopravvive, scopriremo come. Esce la mattina, fa un minimo di spesa, attraversa le giornate facendosi «i fatti propri sapendo che puoi smettere appena incontri qualcuno», torna a casa: intanto gli succedono delle cose e noi le vediamo attraverso di lui, che le racconta al presente nella stessa scorrevolezza narrativa con cui le cose si pensano o, meglio, si raccontano a se stessi quando ci si ferma per fare il punto.
C’è una trama, naturalmente, è c’è un finale a sorpresa in cui dramma e commedia si mescolano, come la vita fa a volte ma – anche – come noi decidiamo o meno che sia: via Padova in questo senso è emblematica, spaccato di stranieri o italiani «che non si mischiano» accanto ad altri, come il barista bangla Rott, che «si mischiano eccome». Romanzo costruito per accumulo anche nella sua stesura, forse, e che dovendo scommettere si direbbe nato da una successione di ritratti «veri» divenuti via via parte di una struttura: la quale alla fine, tuttavia, non solo regge ma anche qualcosa di più.
Dopodiché il protagonista è certamente il luogo: intendendo però che il luogo, anzi i luoghi, in questo caso più che mai, sono a tutti gli effetti le persone e la loro vita. Immerse in una descrizione dei dettagli in cui il cronista e lo scrittore si sostengono a vicenda: Ari il grigliaro, le pandillas degli ecuadoriani, l’emporio cinese che vende alla rinfusa «quel che esiste» e il povero Claudio, clochard veramente esistito, detto «Il Sindaco» per la sua saggezza, veramente morto un anno e mezzo fa su una panchina. Così come c’è la cronaca. Quella che i giornali raccontano (i cantieri dei maxi-parcheggi che fanno crepare i muri, e naturalmente gli ultimi fatti del mese scorso), ma anche quella che sui giornali chissà perché non finisce (quell’altro sudamericano accoltellato, la paralisi di mezzo quartiere per un vecchio dopopartita Egitto-Italia): il personaggio del «giornalista» non poteva mancare e «devo proprio chiederglielo’ riflette Tesio’ perché certe cose sui giornali non ci sono». Con un tocco di leggerezza ironica e senza condanne né prediche dal pulpito, comunque, su tutto: tanto sulle signore che «i marocchini li brucerei tutti», ma oggettivamente «incarcerate» dalla paura, sino alle jeep dell’esercito che rondano il quartiere. Salvo nascondersi dietro l’angolo, in attesa di rinforzi, a ogni segnale di pericolo.
Intorno, lontano, c’è Milano. Con le sue happy hour in cui «la sbronza comincia alle sette e rotola nella notte»: come in via Padova, solo più pulita. E, come in via Padova, con migliaia di «topini che, ignari, girano nella ruota».
Paolo Foschini