Tommy Cappellini, il Giornale 4/4/2010, pagina 39, 4 aprile 2010
VIOLINI PREGIATI (+
intervista) -
Più dell’arte contemporanea e dei diamanti, più degli orologi di manifattura e delle case a Sant Moritz, esiste un investimento finanziario capace di riunire in sé poesia, musica, sensualità e sicuro ritorno d’interessi, a condizione di essere virtuosi, almeno nella scelta dello strumento: parliamo infatti di violini.
Si tratta di un mondo a parte, elitario, dove «chi sa, sa». Tutto nasce in Italia, in poche botteghe e dalle mani di abilissimi artigiani che si tramandano l’arte di padre in figlio. Una volta ultimato lo strumento, il mercato privilegiato è quello ruggente di una certa globalizzazione: Tokyo, Shanghai, Hong Kong, Taipei e dintorni. Ma la storia incomincia a Brescia.
qui che, alla fine del Cinquecento, il liutaio Gasparo da Salò costruì quello che possiamo chiamare il primo violino, passando così dalla realizzazione di liuti (suonati a pizzico) allo strumento ad arco, ancora oggi creato con minime variazioni tecniche rispetto ad allora. Nel secolo successivo fu però Cremona ad assicurarsi un ruolo cardine nella liuteria. Famiglie come gli Amati, i Ruggeri, gli Stradivari, i Guarneri portarono ad una perfezione mai più raggiunta l’arte di costruire violini: sono proprio gli strumenti di questi maestri che costituiscono ancora oggi il cuore della «borsa-violini» mondiale. Di Antonio Stradivari sono molto ricercati i rari pezzi autentici ancora sul mercato (quelli del suo primo periodo vanno da un milione a due milioni e mezzo di euro; uno Stradivari dei primi del Settecento, invece, vale due milioni e mezzo; si sale a cinque, sei milioni di euro per gli strumenti del suo periodo d’oro), mentre di Giuseppe Guarneri - detto «del Gesù» per l’abitudine di firmare la cassa armonica dei violini con la sigla latina «IHS» - si conoscono una sessantina di violini che vanno dai due milioni fino ai sei milioni di euro. Assicurazioni, banche, fondazioni, musei e privati si contendono ciclicamente questo ristretto numero di strumenti, dal momento che le rivalutazioni nel corso degli anni sono incalcolabili.
La morte di Antonio Stradivari nel 1737 e quella prematura di Giuseppe Guarneri segnarono l’inizio della decadenza della liuteria cremonese, nonostante restassero famiglie come Bergonzi, Storioni, Ceruti a tenere alto il nome della città, mentre il commercio si spostava però in altri luoghi. Torino, collegata al mercato d’Oltralpe, divenne un rilevante centro di liuteria: vi aveva lavorato anche Giovanni Battista Guadagnini, che grazie al sodalizio con il conte Cozio di Salabue (un ricco, eccentrico e velleitario collezionista che aveva fatto «shopping» acquisendo le forme originali di Stradivari, i suoi attrezzi, i disegni e tutto quello che poteva servire a capire come lavorava il maestro) riuscì a dar vita nell’Ottocento all’altra grande tradizione della liuteria italiana, quella cosiddetta «piemontese», che vede protagonisti Giovanni Francesco Pressenda e Giuseppe Rocca.
Anche altre città hanno avuto come Torino un ruolo importante: Napoli (la famiglia Gagliano, Vincenzo Postiglione, Vincenzo Sannino), Milano (Grancino, Mantegazza, Bisiach, Garimberti, Ornati), Venezia (con Domenico Montagnana, i Goffriller e Pietro Guarneri) e Mantova (Balestrieri, Pietro Guarneri di Mantova, Giuseppe e Stefano Scarampella). Cremona rientra in gioco nel 1937 con la grande mostra dedicata a Stradivari nel bicentenario della morte, voluta da Mussolini e Farinacci. L’anno successivo nacque in città anche la Scuola Internazionale di liuteria. Pochi anni dopo alcuni apprendisti liutai come Francesco Bissolotti (nato nel 1929) e Giobatta Morassi (nato nel 1934) si apprestavano a diventare leggende e a insegnare a diverse generazioni l’arte di creare violini e strumenti ad arco degni della secolare tradizione della città. sugli strumenti di questi due maestri e dei loro migliori allievi che oggi si appunta l’attenzione di una fascia di investitori diversa dagli acquirenti di Stradivari e Guarneri (strumenti a cui spesso vengono dati soprannomi evocativi delle loro vicende: «Il cannone», per esempio, appartenuto a Paganini, è un potente Guarneri del Gesù del 1742, lo «Jussupov» è uno Stradivari del 1736, appartenuto al principe omonimo, ritrovato in un’intercapedine di Leningrado nel 1917, «The Irish» è uno Stradivari del 1702 comprato in Irlanda nel 1900). Coi violini degli ultimi decenni, infatti, l’investimento diventa relativamente più semplice, anche se spesso per orientarsi nell’acquisto, come d’altra parte per i violini antichi, è necessario fare affidamento su un intermediatore che abbia studiato le genealogie dei liutai e che si prenda la responsabilità, su scala mondo, di autenticare e certificare lo strumento.
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INTERVISTA
Paolo Virgoletti è uno dei maestri liutai italiani emergenti nella zona tra Cremona e Reggio Emilia, dove la sua famiglia lavora nel settore da decenni. Ha iniziato come allievo del nonno e dello zio, per poi passare nell’atelier del fratello, nella bottega del maestro Elio Severgnini e - negli ultimi due anni - in quella di José Maria Lozano a Madrid. Oggi lavora a San Polo D’Enza.
Cosa spinge un giovane artigiano verso la liuteria?
«Il mio mestiere è rimasto inalterato nel tempo, addirittura nei secoli, e consente di mettere il nome dell’artigiano su di un oggetto che, di fatto, è bellissimo. Ma non si tratta di una semplice etichetta. Tutto, in un violino, esprime la personalità del liutaio: la scultura del riccio, il taglio delle effe, l’intarsio del filetto, la ricerca delle esatte bombature, la difficile stesura della vernice e quindi, infine, le caratteristiche sonore. Ogni strumento costruito da un liutaio è un pezzo unico, inimitabile e riconoscibile anche dopo secoli».
Il mercato dei violini ha subito una crisi?
«In realtà non si può parlare di vera e propria crisi in un settore di questo tipo, poiché ogni volta che uno strumento italiano di alto livello esce dalla bottega del liutaio si affaccia su un mercato di violinisti e di investitori grande quanto il mondo, un mercato virtualmente inesauribile».
Qual è la tipologia dei compratori?
«Dei trecento strumenti prodotti ogni anno dai migliori maestri liutai italiani - che sono una trentina - più del novanta per cento va all’estero. Personalmente, ho forte richiesta da parte dei musicisti orientali: Taiwan, Hong Kong, Tokyo. Centri nevralgici del mio mercato».
Ma il senso di un simile investimento?
«I violini di pregio sono pochi e le persone che vogliono suonarli sono tante. Così, la domanda intorno a questi strumenti cresce costante, aumentando il loro valore. Per esempio alcune Fondazioni basano il loro investimento in violini proprio sulla rivalutazione nel tempo dello strumento e sulla possibilità, nel mentre, di noleggiarlo».
Quanto è necessario per cominciare a investire in violini?
«Per un buon violino moderno costruito da un liutaio italiano si parte da 7mila per arrivare a 15mila, in base alla popolarità dell’autore e alle qualità sonore. Per uno strumento del ’900, invece, si va dai 25mila ai 100mila euro, a seconda del liutaio che lo ha creato e dello stato di conservazione. Per i violini del Settecento o dell’Ottocento bisogna prestare molta attenzione all’autenticità e alle condizioni dell’oggetto. Occorre affidarsi alla consulenza di un esperto, che possiede attrezzature sofisticate. Le quotazioni non scendono comunque sotto i 200mila».
Chi ha già acquistato uno strumento, come può farlo fruttare?
«Consiglio di metterlo a punto e di affittarlo, così il violino rimane sempre visibile sul mercato, gira il mondo, coperto da assicurazione, non rimane chiuso in un caveau e migliora le proprie qualità sonore. E dà anche un aiuto al musicista nell’esprimere il proprio talento».