ALESSANDRO URSIC, La Stampa 4/4/2010, pagina 13, 4 aprile 2010
LA BANGKOK BENE CONTRO LE CAMICIE ROSSE
Sullo Skytrain, la metropolitana sopraelevata con aria condizionata a palla e biglietto che costa più di un pad thai, alcuni passeggeri vedono la «marea rossa» bloccare la centralissima Sukhumvit Road e scuotono la testa: «Ma andatevene a casa...», sibila uno studente che pare uscito da una boyband asiatica. Sotto il serpentone di cemento armato che attraversa Bangkok, però, altro che andarsene: decine di migliaia di «camicie rosse» - i sostenitori dell’ex premier Thaksin Shinawatra, considerati rozzi bifolchi dalla classe medio-alta - sono appena arrivate, spostando nel cuore commerciale della capitale thailandese la protesta antigovernativa che portano avanti dal 12 marzo.
Finora avevano occupato la parte storica di Bangkok: vicina ai palazzi del potere ma un’isola a sé, per incidere davvero sulla vita dei 12 milioni di abitanti. Vogliono che il premier Abhisit Vejjajiva indica nuove elezioni, subito: la trovata del sangue contro la sede del governo, poi un corteo chilometrico e occasionali disagi al traffico non sono bastati. Ieri mattina l’escalation: l’incrocio Ratchaprasong, in piena zona shopping, è sotto il controllo di migliaia di manifestanti. Il grido «Abhisit ork pai!», Abhisit fuori, ora risuona davanti agli hotel di lusso e ai centri commerciali - tutti chiusi per motivi di sicurezza - dove un paio di scarpe costa come quanto molti «rossi» guadagnano in due mesi.
Nell’aprile di un anno fa, gli stessi manifestanti spedirono bus in fiamme contro l’esercito. Stavolta insistono sulla non violenza, espongono striscioni come «change for Thailand», in vago stile Obama. Thaksin, intuendo che le popolose aree rurali erano trascurate da un sistema politico rigido e clientelare, nei suoi cinque anni al governo diede loro una sanità quasi gratuita e microcredito. Ora i «rossi», sempre più radicati sul territorio con radio, tv e servizi sociali, sanno quello che vogliono. Dicono di lottare contro il «doppio standard», la gabbia di una distribuzione del reddito tra le più inique dell’Asia. Ma anche l’intero processo che ha portato al potere Abhisit a fine 2008: due governi filo-Thaksin sciolti dalla magistratura, l’occupazione degli aeroporti da parte delle «camicie gialle» di simpatie monarchico-militari, e infine un ribaltone parlamentare.
La Bangkok-bene li guarda dall’alto in basso, anche quando scende dallo Skytrain. L’élite, di famiglie sino-thai, non riesce a comprendere le lagnanze di questa massa di provinciali dalla pelle più scura della loro. Il sistema mediatico - dominato dagli interessi della capitale - gioca sul pericolo di violenze. «Arrivano le orde rurali», scrisse tre settimane fa il Bangkok Post. Lo spauracchio dei barbari funziona: «Ho perso metà della mia clientela con queste manifestazioni. La gente ha paura di uscire alla sera», confidava il proprietario di un ristorante di lusso qualche giorno fa, quando i «rossi» se ne stavano buoni a chilometri di distanza. Figurarsi ora, che li ha a 200 metri.
Abhisit sta cercando di guadagnare tempo e consensi, adottando politiche di cancellazione del debito rurale scopiazzate da Thaksin; le stesse per cui l’élite all’epoca si indignava, accusando il magnate di basso populismo a spese dei contribuenti. Ma non attacca. Il premier ha studiato a Oxford, è posato e rispettoso, la perfetta espressione di quella «aristocrazia» demonizzata dalle camicie rosse: il suo nome - Abhisit significa «privilegio» - dice tutto. Thaksin, uno squalo degli affari che arringa la folla dal suo dorato autoesilio a Dubai, è miliardario ma gioca sulla retorica dell’«uomo che si è fatto da sè».
Come finirà? Abhisit fa leva sulla necessità di riconciliazione e si appella al «carattere pacifico dei thailandesi»; 50 mila soldati sono comunque in allerta. Ma dopo cinque anni di proteste - prima gialle, poi rosse - lo spettro di una guerra civile è evocato sempre più spesso. «Padre», come chiamano l’anziano re Bhumibol, in altre crisi intervenne con parole moderatrici; ma è in ospedale da sei mesi e parlare della successione costituisce lesa maestà. Lo si fa sottovoce. E con disagio, dato che l’idea di monarchia - proporre un’altra forma di governo è tabù - e un sovrano sul trono da 63 anni sono ormai la stessa cosa.
Intanto, il fastidio della classe medio-alta è sempre più evidente: venerdì sono comparse migliaia di inedite «camicie rosa», per lo più ex gialli con addosso il colore considerato di buon auspicio per la guarigione del re. Finora i due gruppi non sono venuti a contatto: nei rari episodi in cui è accaduto, dato il crescente livore, si sono rischiati linciaggi. L’ultimo ieri, vicino a una delle mall chiuse, quando un maldestro - o esasperato - figlio di papà ha investito alcuni motorini dei manifestanti. Con la sua Porsche.