MICHAEL T. KLARE, La Stampa 4/4/2010, pagina 9, 4 aprile 2010
SHOPPING GLOBALE DELLA CINA
Provate a confrontare la Cina e gli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’acquisto delle materie prime che fanno muovere la società industriale, la Cina di oggi è il Paese più shopping-dipendente della Terra, mentre gli Usa se ne restano a casa. Duramente colpiti dalla recessione, subiscono un netto declino dei consumi di petrolio e di altri materiali-chiave. Non così la Cina, che sta sperimentando un ulteriore incremento nell’uso di greggio e materie prime. Non solo, ma anticipando il vorace consumo di risorse che richiederà la crescita futura, i giganti cinesi dell’energia e della manifattura - molti di proprietà statale - hanno scatenato una corsa agli acquisti per assicurarsi le risorse strategiche del 21simo secolo. Hanno fatto incetta di pozzi di petrolio, riserve di gas naturale, miniere, oleodotti, raffinerie eccetera in un’abbuffata di spese senza precedenti.
Come altri Paesi, anche la Cina ha subìto qualche danno dalla crisi del 2008. Le sue esportazioni sono declinate e la crescita economica, prima esplosiva, è scesa. Ma grazie al pacchetto di stimoli pubblici di 586 miliardi di dollari gli effetti negativi si sono mostrati di breve termine e la crescita ad alto numero di ottani è rapidamente tornata. Questo ha suscitato un’accresciuta domanda di petrolio, acciaio, rame eccetera. Invece negli Usa il consumo di idrocarburi è calato del 9% negli scorsi due anni, da 20,7 milioni di barili al giorno a 18,8 milioni, mentre nello stesso periodo il consumo cinese è cresciuto da 7,6 a 8,5 milioni. Secondo il dipartimento americano dell’Energia i consumi cinesi di petrolio continueranno a crescere allo stesso ritmo nel 2010 e nel 2011 mentre quelli americani ristagneranno ancora. Si prevede che nel 2020 la Cina produrrà 3,3 milioni di barili al giorno mentre avrà bisogno di importarne 9,1 milioni. Questa vulnerabilità strategica preoccupa moltissimo i leader cinesi e Pechino ha reagito, come facevano gli americani nel decenni passati, puntando al controllo di risorse straniere di energia e materie prime.
Già una decina di anni fa le società cinesi hanno cominciato a comprare compagnie straniere petrolifere o minerarie (o quote di compagnie). Per primi sono partiti tre grandi gruppi petroliferi di proprietà statale, China National Petroleum Corp. (Cnpc), China National Offshore Oil Corp. (Cnooc) e China Petroleum & Chemical Corp. (Sinopec). Queste compagnie, o le loro sussidiarie, hanno cominciato a comprare in Angola, Iran, Kazakhstan, Nigeria, Sudan e Venezuela. All’inizio tali acquisizioni sono state surclassate da quelle dei gruppi occidentali come ExxonMobil, Chevron, Royal Dutch Shell e Bp. Tuttavia hanno rappresentato qualcosa di nuovo: una crescente presenza cinese in un universo petrolifero una volta dominato dalle «major» occidentali.
Poi è arrivata la Grande Recessione. Dal 2008 i gruppi occidentali si sono mostrati riluttanti a fare grandi investimenti all’estero, temendo che la stagnazione dei consumi mondiali si protraesse. Invece i cinesi non hanno fatto altro che accelerare la loro campagna-acquisti. Le autorità politiche di Pechino l’hanno incoraggiata, osservando che il momento era perfetto per acquistare risorse energetiche e materie prime di importanza cruciale a prezzi di affezione vista la latitanza dei potenziali compratori occidentali. «La crisi è una sfida ma anche un’opportunità - insisteva Zhang Guobao, capo dell’Agenzia nazionale dell’energia all’inizio del 2009 -. La recessione ha ridotto i prezzi dell’energia e delle fonti di approvvigionamento e favorisce le nostre acquisizioni».
Nel 2009 la China Development Bank ha prestato alla China National Petroleum Corp. 30 miliardi di dollari per un campagna quinquennale di acquisti di giacimenti all’estero. La stessa Cbd ha prestato 10 miliardi di dollari alla Petrobras, compagnia di Stato brasiliana, per sviluppare giacimenti petroliferi off-shore a grande profondità, in cambio della promessa di fornire alla Cina 160 mila barili al giorno.
Per citare una lista molto parziale dei colpi messi a segno nel 2009: in aprile la Cnpc ha formato una joint-venture in Asia Centrale con il Kazakhstan per rilevare una compagnia kazaka a 3,3 miliardi di dollari. In ottobre un consorzio guidato dalla Cnpc e dalla britannica Bp ha vinto un contratto per lo sviluppo dei giacimenti della regione di Rumaila in Iraq; investirà 15 miliardi di dollari per aumentare da 1,1 a 2,8 milioni di barili al giorno la produzione. In novembre la Sinopec ha costituito una joint-venture con la compagnia di Stato dell’Ecuador, Paese in cui la stessa Sinopec è già uno dei maggiori produttori avendo rilevato asset nel 2005 per 1,4 miliardi di dollari. A dicembre la Cnpc ha acquisito una partecipazione nel blocco 3 del giacimento di Boyaca in Venezuela e ha firmato un accordo con il governo del Myanmar (Birmania) per un oleodotto. E nel marzo 2010 la Cnooc ha manifestato interesse per una compagnia che opera in Argentina, Cile e Bolivia e la PetroChina ha fatto un’acquisizione in Australia.
E tutto questo solo nel settore dell’energia. Le compagnie minerarie e metallurgiche cinesi hanno perlustrato il mondo alla ricerca delle riserve più promettenti di ferro, rame, bauxite e altri minerali industriali strategici. Nel mese di marzo, per esempio, Aluminium Corp. of China (Chinalco) ha acquisito il 44,65% delle risorse di ferro della Simandou in Guinea; per questa partecipazione la Chinalco pagherà al gigante anglo-australiano Rio Tinto 1,35 miliardi di dollari. Tenete presente che la Chinalco possiede già il 9,3% della stessa Rio Tinto, e le è stato impedito di comprarne una quota ancora più grossa perché il governo australiano temeva che i cinesi conquistassero una porzione eccessiva delle risorse di energia e minerali del Paese.
Copyright 2010 Tomdispatch.com