Fabrizio Goria, Il Riformista 30/3/2010, 30 marzo 2010
DOPO VOLVO, L’OCCHIO DI PECHINO POTREBBE GUARDARE ALL’ITALIA
La Cina conquista Volvo e entra con forza nel mercato mondiale dell’auto. Dopo le banche americane, Pechino cambia target. E l’Europa potrebbe diventare il prossimo l’obiettivo degli investimenti cinesi, complice la debolezza dell’euro. Il Giornale titola proprio sui timori di un riassetto globale, capace di toccare anche l’Italia: «Aiuto, i cinesi si son mangiati anche la Volvo», nel giorno i cui la Lega, la forza politica che diffida dell’est e che teme l’accelerazione della globalizzazione fa il pieno di voti nelle regioni del nord. Al Riformista Giulio Sapelli, docente di Economia politica dell’Università di Milano, dice: «Il rischio esiste e dovremo abituarci, dato che sono praticamente gli unici investitori al mondo che hanno enorme liquidità».
Acquistata per 1,8 miliardi di dollari, Volvo è passata in mano di Geely, dopo circa 10 anni di proprietà Ford, che l’aveva comprata per 6,5 miliardi. La società fondata da Li Shufu nel 1986 sembra l’emblema della Cina contemporanea: il core business è passato dai frigoriferi ai motocicli fino ad arrivare all’auto. Ma questo è solo uno degli esempi del capitalismo cinese. I capitali di Beijing sono entrati anche nella banca d’affari statunitense Morgan Stanley (2007, 5 miliardi di dollari, 9,9 per cento delle azioni), nel fondo private equity newyorkese Blackstone (2007, 3 miliardi di dollari per il 9,4 per cento del gruppo) e nel colosso del credito Visa, con un investimento di 100 milioni effettuato nel 2008. Tutte operazioni condotte dal fondo sovrano China investment corporation, dotato di circa 370 miliardi di asset e operativo dal 2007. La crisi economica ha aperto svariati spazi operativi per l’ingresso di contanti.
Sapelli ne parla come «la mina vagante per il capitalismo moderno». Colpa delle strategie economiche dettate dal Governo di Pechino, ma non solo. La particolarità delle grandi imprese cinesi consiste nella loro grande liquidità. «Hanno ampie quantità di contanti per gli investimenti ed è chiaro che possono agire sui mercati con aggressività», dice. I cinesi comprano Volvo per acquisire tecnologia, per colmare il gap presente nel settore automobilistico con gli altri big occidentali.
Come reagire? Da un lato si può accettare il corso dei mercati. Dall’altro si possono applicare politiche protezioniste «sul modello thatcheriano», ricorda l’economista. Sapelli è certo della situazione odierna: «Vedo molta rassegnazione nell’occidente rispetto alla potenza di fuoco cinese». Per lui «far entrare la Cina nella World trade organization è stato un errore e questi sono alcuni degli effetti».
In riferimento al mercato dell’auto, lo storico dell’impresa della Bocconi Giuseppe Berta al Riformista spiega il mutamento in corso. «Abbiamo avuto un periodo, dal 1908 al 2008, in cui l’industria dell’auto era americocentrica. Con la crisi, non esiste più questo dominio e sicuramente gli Stati Uniti torneranno ai livelli antecedenti il 2008», dice. La Cina, secondo Berta, dopo le banche, «sta cercando di entrare in altri mercati, soprattutto puntando a limitare i gap con l’occidente». Ecco quindi come leggere l’affare Volvo. «Geely ha deciso di acquisire un marchio famoso per solidità e sicurezza, cioè proprio i fattori più deboli dell’industria cinese», dice. Non è escluso che possano esserci altre partite in lizza dato che il ritmo di
La tendenza d’investimento cinese è mutata nell’ultimo anno. Se fino al 2008 gli occhi erano puntati sul sistema bancario, soprattutto statunitense, oggi è più ad ampio respiro. Del resto, prima di Volvo ci sono state le operazioni su MG e Rover, senza dimenticare l’offerta per lo stabilimento Fiat di Termini Imerese. Claudio Scajola, ministro per lo Sviluppo economico, si è detto disponibile a «qualsiasi offerta», avallando anche l’opzione Pechino. E su questo Sapelli avverte: « possibile che si finisca con l’accettazione della proposta cinese, cioè gli unici che hanno capitali forti». Anche Berta è d’accordo, ma evidenzia un altro aspetto. «Dell’eventuale ingresso cinese su Termini potrebbe patirne specialmente l’indotto». Infatti, se è vero che i capitali di Pechino sono elevati, è altrettanto vero che l’atteggiamento gestionale è differente a quello europeo. «L’ottica cinese difficilmente si concilierebbe con un assetto di fornitura locale», spiega Berta. Un elemento che si può applicare a tutti i settori produttivi.
L’attuale scenario macroeconomico mette in luce l’incertezza dell’euro. L’operatività di Pechino sui mercati europei potrebbe quindi aumentare. Ipotesi avallata anche da Corrado Passera, consigliere delegato di Intesa Sanpaolo, che ieri ha lanciato l’allarme: «L’Europa deve saper reagire con maggiori capacità innovative».