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 2010  aprile 03 Sabato calendario

VITA DI CAVOUR - PUNTATA 10 - IL GAMBERO CAMILLO

Stavamo dicendo che Carlo Alberto e Cavour erano molto diversi, anche fisicamente. Il futuro re alto più di due metri. Camillo, sotto il metro e 60. Poi: il re tristissimo, sofferente di stomaco, avvelenato da qualcosa quand’era piccolo, quindi tormentato da coliche di fegato, renella, emorroidi, costretto a mangiar solo verdura e patate. Cavour invece… Qui aveva promesso di raccontarmi un pasto del Cavour sedicenne.
Sì, nel ”26, un giorno che ebbe libera uscita dall’Accademia e andò a mangiare a casa: una scodella di minestra, due grosse cotolette, un po’ di bollito, una beccaccia che Michele aveva portato da Leri (la loro tenuta in campagna), patate, fagioli, riso, uva, caffè. chiaro che due uomini così diversi dovevano litigar subito.
Che successe?
Il padre di Cavour, continuando a brigare per riconquistare la fiducia del re, era riuscito a far nominare il figlio paggio del principe. Si trattava di indossare una divisa rossa e di fare la bella statuina, cioè di lasciarsi piazzare, con fini esclusivamente decorativi, in qualche punto dove la macchia rossa del costume avrebbe creato un bell’effetto. Lo misero infatti, piccolino com’era, sulla carrozza della principessa, vicino al cocchiere, e gli fecero fare, conciato in quel modo, il giro della città. All’arrivo, Camillo era furibondo e al marchese di Sommariva che era andato a complimentarsi rispose con una specie di ruggito: «A dirvi la verità signore sono seccato di dover portare questa divisa da lacchè!». Finita l’Accademia, lo si sentì esclamare: «Finalmente! Non ne potevo più di questo costume da gambero». Pensi che ancora trent’anni dopo, Cavour ricordava quell’episodio con rabbia e a William De La Rive disse: «Perbacco, come volevate che fossimo vestiti, se non da lacchè quali eravamo? Io ne arrossivo di vergogna». Carlo Alberto se la legò al dito: «Il piccolo Camillo Cavour ha fatto il giacobino e io l’ho messo alla porta» scrisse il 31 dicembre 1826. E aveva effettivamente chiesto al re di buttar fuori Cavour dall’arma del genio. Il marchese di Boyl, però, il generale comandante, giocava a carte tutte le sere col re e gli fece sapere che all’espulsione del conte sarebbero immediatamente seguite le dimissioni sue. Carlo Felice lasciò perdere e Camillo restò ufficiale. Anche se per poco.
Si dimise dall’Arma?
Bisogna capire che l’episodio del paggio dà conto di una prima, fondamentale caratteristica del nostro amico: un senso della propria dignità personale vivissimo. Cioè: il conte non era disponibile a nessun tipo di sottomissione, né al fratello marchese né al principe ereditario né al sistema politico che lo circondava, né ai gesuiti né a nessuno. Era poi diventato un liberale.
E com’era successo?
I fatti del 1821 avevano avuto il loro effetto anche sugli studenti dell’Accademia, nonostante che, per tenerli lontano da quelle cattive influenze, i ragazzi fossero stati segregati già a gennaio con la scusa della rosolia serpeggiante in città. Poi le autorità scolastiche sospesero anche le visite dei parenti, infine trasferirono l’intera scolaresca all’Accademia ecclesiastica di Superga, fuori città. Il 12 marzo, però, le grida della folla tumultuante erano penetrate nella cappella dove erano tutti riuniti. Poco dopo un gruppo di giovani era scappato alla volta di Alessandria ed era poi stato riacchiappato dai compagni dei corsi superiori, che avevano riportato gli aspiranti patrioti a Superga «a piattonate e calci non dico dove». Il registro disciplinare mostra in quei giorni un’impennata delle punizioni. Insomma, gli studenti facevano gli studenti e Camillo non era diverso dagli altri. Stava con chi doveva stare a quell’età, cioè con chi voleva cambiare il mondo.
E a casa?
Erano allarmatissimi. Lettere, punizioni. Viva preoccupazione per il solito compagno più grande che lo portava sulla cattiva strada. Era in questo caso il barone Severino Cassio, futuro sindaco di Borgomaro e convinto democratico, di tre anni maggiore di Cavour. Avversato anche lui dalla propria famiglia. S’era ostinatamente fatto un’educazione italiana attraverso la lettura dei classici. E aveva spiegato a Camillo che, parlando francese invece che italiano, ci si metteva, magari non volendo, da una certa parte contro l’altra. Il conte era convinto che quella fosse la parte giusta? Non vedeva egli le ingiustizie dei tempi, l’Italia, la sua patria, asservita e divisa, le malefatte dei preti, l’ignoranza del re, i tradimenti di Carlo Alberto? Cavour provò anche a smettere di parlar francese, cosa difficile perché con l’italiano ci prendeva poco. La madre gli scrisse: «Siete un illuso, la vostra immaginazione s’arrovella intorno a idee folli, sconvenienti, ridicole, false / rientrate, e presto, nella cerchia dalla quale non siete mai uscito». Il padre minacciò di spedirlo «a morir di fame in America». In realtà, i guai provocati da quella testa calda erano appena cominciati.