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 2010  aprile 03 Sabato calendario

VIAVAI MENTRE ASPETTI IL VOLO

Ricordate The Terminal, quel film metafisico di Spielberg dove un personaggio dell’Est europeo viene bloccato all’aeroporto di New York per molte settimane, a causa di un inghippo burocratico? Dopo svariati incontri, il protagonista Viktor Navorsky capisce che la Grande Mela è lì, al terminal aeroportuale, e non sente più il bisogno di visitare la vera Manhattan.
Il film ha suscitato reazioni impreviste. Dopo averlo visto, molta gente ha preso ad abitare negli aeroporti. E non manca giorno che i media non segnalino la presenza di nuovi homeless da aerostazione sparsi per il mondo. Così, è naturale che l’amministrazione di Heathrow, enorme aeroporto londinese, abbia sentito il bisogno di capire che cosa si prova nel trasformare un luogo di passaggio in uno spazio di stallo, un «non-luogo» in una casa dolce casa. E, per farlo, ha pensato di affidarsi all’acutezza di uno scrittore come Alain de Botton, il quale per contratto ha vissuto in quel luogo per una settimana.
Quel che molti vivono come incubo al minimo ritardo del volo (stazionare in aeroporto!) diviene ricerca di mercato e trovata letteraria. Da cui un testo divertente, Una settimana all’aeroporto, resoconto di quel che accade all’animo umano una volta rinchiuso in uno spazio incongruo, con una dovizia di introspezione psicologica e attenzione etnografica che nessun partecipante al Grande Fratello avrebbe voluto e saputo fornire. L’arte, forse, è anche saper trasformare il differimento d’un volo in opportunità creativa.
Certo, la settimana lì trascorsa dallo scrittore svizzero non è stata proprio da barbone. Alloggiava in uno degli alberghi del Terminal 5 (progettato, osserva, a imitazione di una cabina di business class in un aereo americano). Lavorava in una scrivania nell’atrio delle partenze. E aveva l’autorizzazione per intrufolarsi dovunque ne avesse voglia (uffici, cucine, piste di atterraggio, garage, depositi), osservando la gente, chiacchierando con essa, cercando di cogliere il senso delle loro piccole grandi storie. Si fanno strada interrogativi d’un certo spessore: che cosa farà quel tizio che ha appena lasciato fra gli strazi più profondi la sua ragazza dinanzi ai controlli? tornerà a casa piangendo? cercherà un diversivo? s’accascerà su una panchina? Niente di tutto questo: entra in un grande magazzino e compra un sacchetto di mango secco, che assapora passeggiando fra la gente come un’anima in pena. A cosa starà pensando?
Tutt’altre storie hanno da raccontare quelli che in aeroporto lavorano: negozianti, lustrascarpe, magazzinieri, cuochi, sacerdoti, doganieri, prostitute, addetti alla sicurezza, alle pulizie dei pavimenti, ai bagni… Il lustrascarpe, per esempio, è un perfetto psicologo: coglie dalle calzature della gente il loro grado di depressione, e sa come aiutarla a tirarsi su. La cappella della chiesa, poi, è luogo di straordinari incontri interetnici: induisti, islamici, buddisti, cristiani condividono lo stesso spazio di culto, e forse non solo quello.
La cosa che colpisce di più è lo scarto fra le aspettative iniziali e la realtà. Prima di quella settimana iniziatica la macchina aeroportuale sembrava perfetta, tesa al raggiungimento del valore supremo: la puntualità. A poco a poco ci si accorge che la funzionalità non è tutto, e che gli stessi dirigenti del luogo lavorano per negoziare valori, storie, idee, passioni di una gran massa di gente che parte e arriva per i motivi più diversi, e che in quel luogo di transiti finisce per esprimere al meglio la propria identità. Come Navorsky, de Botton ne conclude: l’aeroporto è la metafora del mondo. Altro che non-luogo.