GIANANDREA PICCIOLI, La Stampa 3/4/2010, pagina I, 3 aprile 2010
ASPETTANDO LA PASQUA CON UN NUOVO CONCILIO
La messa in mora del Concilio non ha giovato, finora, alla Chiesa cattolica: molti credenti, e anche parte del clero, vivono in uno stato di sofferto scisma silenzioso («sommerso» l’aveva già definito l’ortodosso filosofo cattolico Prini), ben più ampio di quello del manipolo lefebvriano che tanto sta a cuore al Vaticano, mentre in soccorso dell’istituzione romana arrivano truppe spurie, spesso interessate, più che alla fede cristiana, a un regime di cristianità, e cioè a una strumentalizzazione politica a fini identitari di una religione che dell’apertura all’altro, sia con la maiuscola sia con la minuscola, aveva fatto la propria ragion d’essere. Ma forse molti, a Roma, pensano con affettuosa nostalgia a Gregorio XVI, che bollava come deliramentum la separazione di Chiesa e Stato.
Eppure il Concilio Vaticano II è lì, difficilmente eludibile, e continua a produrre discussioni e bibliografia. E’ appena uscito un saggio destinato probabilmente a diventare il libro standard sull’argomento per chiarezza, capacità di sintesi, rigore ed equilibrio. L’autore, John O’Malley, è uno storico gesuita, già noto al pubblico italiano per altri importanti lavori su Erasmo, sul Concilio di Trento, sull’articolarsi della cultura europea; il titolo Che cosa è successo nel Vaticano II (pp. 400, e25), l’editore Vita e Pensiero, la casa editrice dell’Università Cattolica.
Che cosa rende peculiare e importante questo studio? La novità dell’approccio. Liberandosi dalle pastoie delle opposizioni continuità/discontinuità, conservatori/progressisti, scegliendo semmai quella ideologicamente più neutra di maggioranza/minoranza, O’ Malley descrive la situazione della Chiesa dalla modernità illuministica in poi; espone l’inadeguatezza complessiva delle risposte date dall’istituzione fino al secolo scorso; racconta con abbondanza di documenti e di particolari anche gustosi la storia dei quattro periodi del Vaticano II; sottolinea la sorpresa, dopo l’incertezza iniziale sugli scopi dell’assemblea, del coagularsi di un’amplissima maggioranza dei 2500 padri conciliari attorno ai documenti, pur tra resistenze curiali, contrasti asperrimi, dure contestazioni, temporeggiamenti, trappole degne di un film di Buñuel. E come strumento ermeneutico usa l’analisi linguistica e stilistica.
Il Vaticano II è il primo Concilio che non segue il modello legislativo e giudiziario mutuato dalla cultura romana: per la prima volta non ci sono, nei testi, ordinanze prescrittive con relativo anatema ai trasgressori. Né ci sono dogmi o definizioni dottrinali nelle 4 costituzioni o nei 9 decreti o nelle 3 dichiarazioni. (Per farsi un’idea della novità basta ricordare che il Sinodo del 1960, considerato una sorta di prova generale del Vaticano II, aveva promulgato ben 771 canoni, cioè ordinamenti prescrittivi o proscrittivi).
Non solo: il genere letterario adottato è quello epidittico, cioè del panegirico, che rende attraenti gli ideali cristiani e suscita l’emulazione: «Esso mira a conquistare l’assenso interiore, non a imporre la conformità dall’esterno. Insegna, ma mediante il suggerimento, l’accenno e l’esempio piuttosto che con il pronunciamento magisteriale; è uno strumento di persuasione, non di coercizione». Con il genere letterario cambia anche la terminologia, ed è interessante seguire O’Malley nella sua analisi delle parole e delle espressioni usate (popolo di Dio, fratelli e sorelle, collegialità, cooperazione, associazione, dialogo, conversazione, pellegrina - la Chiesa -, servo - il presbitero -, sviluppo, progresso, evoluzione, coscienza, mistero, santità…) e di quelle evitate (tutte «quelle di estraniazione, esclusione, inimicizia, quelle di minaccia e intimidazione, quelle di sorveglianza e di punizione»). Genere letterario e terminologia consentono di delineare un orizzonte interpretativo in cui lo stile generale diventa espressione di valori, quindi, anche senza scomodare Mc Luhan, messaggio. E di cogliere così in tutta la sua evidenza uno dei tratti ricorrenti nei testi conciliari: la chiamata alla santità, che «si manifesta come servizio ad altri nel mondo», per la Chiesa e per tutti. «E’ un tema cui il nuovo genere letterario e il nuovo vocabolario permettevano di emergere, così come il vocabolario più giuridico dei concili precedenti l’inibiva, ed è anche quello che (…) impregnò l’intero Concilio della propria finalità».
L’attenzione è rivolta anche a tre parole-chiave che in O’Malley diventano altrettante categorie interpretative: aggiornamento, sviluppo (o dispiegamento, di potenzialità inespresse) e soprattutto ressourcement, ritorno alle fonti (neologismo coniato da Péguy e ripreso in chiave teologica da Congar). Il ritorno alle fonti è una costante nella cultura europea: dalla riforma gregoriana dell’XI secolo in poi, Umanesimo, Erasmo e Lutero compresi, ma anche la Rivoluzione francese, che si ispirava alle virtù della Roma repubblicana, e persino Verdi («Siamo moderni, torniamo all’antico!»), ogni movimento riformatore si volge alle origini, per attingere autenticità e slancio, per darsi un’identità nuova, per reinterpretarsi più adeguatamente nel contemporaneo. Per i padri conciliari il ressourcement significò leggere il passato «come norma in base alla quale giudicare il presente», ritornare alla parola della Bibbia, alle origini cristiane prima che venissero tradotte negli schemi concettuali della cultura greca, ai Padri della Chiesa e al loro linguaggio. Non è cosa da poco, se si pensa che solo pochi anni prima Pio XII, nella Humani generis, se l’era presa coi critici del tomismo che pretendevano di «effettuare un ritorno all’esposizione della dottrina cattolica con lo stile della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa»! Fu così che il Concilio poté affrontare positivamente tre nodi fondamentali: il rapporto fra identità e cambiamento in un’istituzione che è nella storia ma si vive anche trascendentalmente; il rapporto fra centro e periferia, cioè collegialità di papa e vescovi e Chiese locali; il modo in cui la Chiesa si situa nel e si rivolge al mondo.
Tutto questo accadeva cinquant’anni fa. E fu un’ora d’aria nella lunga storia del cattolicesimo. La coincidenza cronologica col ’68 e il terrore paranoico di certe sue derive, i rischi di sfrangiamento dei fedeli, le ossessioni dottrinarie e centralistiche della Curia romana, mai rassegnata alla fine dell’età costantiniana sancita di fatto anche istituzionalmente dalle assise ecumeniche, hanno portato alla restaurazione. O’ Malley conclude il suo libro con la fine ufficiale del Concilio (8 dicembre 1965) e non si occupa dei lunghi anni postconciliari. Ma quei tre nodi sono ancora stretti, perché il Vaticano non intende scioglierli: il Concilio in realtà non è stato mai applicato, è stato «rettamente inteso», come si usa dire Oltretevere, cioè ingabbiato e devitalizzato, come un dente che fa male. Del Vaticano II si diceva che era solo un inizio, che la sua ricezione avrebbe portato finalmente la Chiesa a essere compagna di strada dell’uomo, viandante con lui nel cammino della storia, testimone di una speranza e non detentrice di una verità. Occorrevano fede e gusto del rischio. Ha prevalso invece la paura. E gli effetti catastrofici sono ora sotto gli occhi di tutti: progressiva settarizzazione del cattolicesimo e sua riduzione a ostaggio della Curia romana; quadri di riferimento linguistici, simbolici e concettuali ormai incomprensibili agli stessi fedeli; incomunicabilità con un mondo pluralistico che richiederebbe invece una riformulazione della pretesa di esclusività salvifica del cristianesimo; scarso rispetto per la libertà di coscienza, che invece il Concilio aveva riconosciuto come diritto inalienabile della persona, anche nel caso in cui questa libertà andasse contro la verità; poco casti connubi con la politica alla ricerca di sostegni esterni… L’elenco sarebbe lungo. Forse, come molti auspicano, sarebbe necessario un terzo concilio. Ma il mediocre e affannato ceto dirigente della Chiesa di oggi come lo affronterebbe?