MARCO NEIROTTI, La Stampa 3/4/2010, pagina 11, 3 aprile 2010
UNO BIANCA
Un permesso dalle 13,30 alle 19 per partecipare, con altri detenuti d’una cooperativa, alla via Crucis all’Opera della Provvidenza di Sant’Antonio ha smosso la polvere delle polemiche. Ma quella polvere - morale o politica - intorno alla camminata «ufficiale» non può invece insinuarsi dentro i colori delle altre due lunghe, tormentate e intime vie Crucis: quella di Marino Occhipinti, che si negava assassino non soltanto alla Corte ma pure a stesso, e quella dei parenti della guardia giurata uccisa il 19 febbraio 1988 dalla banda della Uno bianca. Le dichiarazioni di principio - o emotive - intorno all’opportunità di una brevissima «clemenza» volano troppo nel vuoto per scendere, ogni volta che si affrontano queste situazioni, nel percorso personale di individui tra vita di carcere, confronti con se stessi, paletti fissati dai codici. In quella giungla di elementi di valutazione esistono situazioni analoghe, mai due casi uguali.
Marino, sposato, due figlie (avevano tre e sei anni quando fu arrestato) ha partecipato a uno dei raid feroci - e resi non soltanto più gravi ma più istintivamente inaccettabili per l’essere poliziotti - dei fratelli Savi. E’ entrato in carcere il 29 dicembre 1994. Ergastolo. Nelle udienze sempre rifiutò ogni addebito. Nelle udienze come nei colloqui: anche alla famiglia giurava la propria innocenza. Dopo quella morte si era allontanato subito dai Savi, scivolato in un altro turno, altro equipaggio, si violentava per ammettere che erano di nuovo loro quando mattinali e rapporti sciorinavano altri strani omicidi. Non ammetteva, forse immaginava e taceva.
Una scossa gliela provocò l’insofferenza della figlia per gli agenti penitenziari che detenevano suo padre tutore dell’ordine quanto e più di loro. La verità non era più rinviabile. Punito nell’intimo dalla fatica di reggere quel confronto, Marino Occhipinti si decide a fare i conti con quel che era accaduto: racconta la verità di quel diciannove febbraio alla famiglia prima ancora che alla giustizia e alla società. «Sì, quel19 febbraio c’ero anch’io».
A quel punto avvia un progressivo cammino intimo, per misurarsi con il delitto, cammino citato anche nel decreto di concessione di permesso premio. Fondamentale è il giornale interno del penitenziario di Padova, «Ristretti orizzonti». Ogni giorno l’ora d’aria, dalle 13,30 alle 15, viene spesa nella riunione di redazione: non è il solito dividere incarichi, è il misurarsi in gruppo con la detenzione così come con il passato, le responsabilità e le aspettative. Un progetto così convincente che le scolaresche si alternano nell’incontro con i reclusi, che si svelano senza remore ma pure senza la cappa pericolosa del fascino romantico, eroico e malinteso del male: «Ho ucciso una persona. Questo è successo poi a me, alla mia famiglia...». Ogni anno sono coinvolti 5 mila studenti, alcuni oltrepassano le sbarre, ma non a sentirsi raccontare il sangue da fiction tv, bensì il nero e il grigio dell’animo.
Giornale e verità interiore. Occhipinti chiede e ottiene il percorso della «mediazione penale», vale a dire il cammino prudente, delicato, talora insidioso, dell’incontro con i parenti delle vittime. Non si arriva a una conclusione per fatti oggettivi, ci sono di mezzo le condizioni di salute del padre della vittima, non è il momento adatto. Intanto il detenuto Occhipinti Marino lavora. Nel carcere di Padova occupa carcerati la cooperativa Giotto, quella dei panettoni. Lui fa parte del «Consorzio Rebus», operatore in un call center che risponde alle richieste di prenotazione in ospedale. Strutture di matrice cattoliche, vicine a Comunione e Liberazione.
Con rispetto Occhipinti chiede più volte un permesso premio per vedere la moglie e le figlie ormai grandi, cui ha confessato prima che allo Stato, ma la risposta è sempre negativa, quasi ci fosse il timore di un senso di buonismo generalizzato, di lassismo. Il 18 marzo 2010 arriva un’altra istanza «volta alla concessione di un permesso-premio per poter partecipare, unitamente ad altri detenuti, e con accompagnamento da parte degli operatori del Consorzio Rebus, a una via Crucis». Accordato. Non da moglie e figlie, bensì con altri avviato a portare davvero - che sfilata simbolica per dei reclusi - una croce tra la gente, la gente che comprende padre, madre e il fratello poliziotto. E’ lì per reggere quella croce pubblica, ma il vero perché è nelle tre pagine di motivazioni firmate dal magistrato di Sorveglianza, Giovanni Maria Pavarin, che ripercorrono nel dettaglio i passaggi di una condanna e una carcerazione - più di quindici anni - vissuti come presa di coscienza e crescita. La vera via Crucis personale, il contrappasso al permesso, è il rientro alle 19. Chiuso un capitolo breve, la storia in carcere e dentro la persona, come nell’anima di tutti i parenti di vittime, va avanti ancora.