Lucia Annunziata, La Stampa 3/4/2010, pagina 1, 3 aprile 2010
PER OBAMA E’ L’ORA DEL PRAGMATISMO
Un opportunista o un grande leader? Un rivoluzionario o un furbetto? Un visionario o un galleggiatore? Il Presidente degli Stati Uniti nelle ultime settimane ha aperto un nuovo dossier sulla leadership, buttando all’aria, con un paio di decisioni, il solito trantran delle chiacchiere dell’analisi politica.
Nel giro di pochi giorni ha compiuto due scelte che fanno ideologicamente a pugni tra loro: ha firmato la legge sulla riforma dell’assistenza medica, e ha messo fine a una moratoria di vent’anni sull’estrazione del petrolio lungo le coste Usa. Cioè, a pochi giorni dall’aver approvato una legge di natura «socialista», ha scartato verso la destra, facendo suo un progetto energetico sostenuto dai Repubblicani e considerato anatema dai suoi elettori.
Che logica c’è - se ce n’è una - in questa doppia mossa? La risposta più semplice, e anche la più cinica, è che la Casa Bianca guardi alle elezioni di midterm, in autunno. Per cui, dopo aver teso la corda verso la sinistra, si sia ribilanciata a destra.
Un calcolo del genere non è da escludere, e sarebbe in ogni caso comprensibile. Ma sarebbe efficace? Gli elettori non hanno l’anello al naso, e sanno distinguere i fatti dai gesti simbolici. La scelta «petrolifera» di Obama, guardata bene, si rivela in effetti parte di un vero e proprio programma energetico.
Intanto, i permessi per i nuovi pozzi sono ispirati a una ricerca di equilibrio fra difesa ambientale e necessità industriali. Sono stati esclusi ad esempio gli ecosistemi più fragili, come quello di Bristol Bay in Alaska, e inviolate rimarranno la costa atlantica dal New Jersey verso il Nord, e la costa pacifica dal confine col Messico al Canada. Le nuove concessioni riaprono invece le estrazioni nella costa atlantica, dal Delaware alla zona centrale della Florida, nel Nord-Est del Golfo del Messico, e nella costa Nord dell’Alaska. Per un totale di circa 300 milioni di acri di Oceano - area tutt’altro che dimostrativa, il cui sfruttamento dovrebbe portare agli Usa un notevole sollievo dalle importazioni energetiche. Secondo le previsioni ufficiali, la costa Est promette una produzione equivalente a tre anni di petrolio, e due di gas ai livelli di consumo attuale; il Golfo del Messico, parte di una zona già oggi in piena produzione, ha una potenzialità valutata in circa 3,5 milioni di barili di petrolio e vari miliardi di metri cubi di gas.
Vero è che nessuna di queste operazioni porterà agli Usa l’agognata indipendenza energetica. Obama è il primo a esserne consapevole: «Con meno del 2 per cento di riserve a nostra disposizione e il 20 per cento del consumo mondiale totale che ci caratterizza, questo programma di estrazione non ci porta molto lontano».
Infatti, come si diceva, i permessi concessi sono parte di un articolato piano energetico, in cui va inclusa la scelta nucleare. A febbraio il ministero dell’Energia ha concesso un prestito di 8,3 miliardi di dollari alla Southern Company per costruire due nuove centrali nucleari - le prime in America da 30 anni. Obama ha costituito un fondo prestiti di 36 miliardi di dollari complessivi per la costruzione di «una nuova generazione» di centrali nucleari. Oggi il 20 per cento dell’elettricità in Usa è prodotta dal nucleare.
Si tratta di un programma di lungo periodo che dovrebbe coprire almeno i prossimi vent’anni; e che nel frattempo ha il vantaggio di creare immediatamente migliaia di posti di lavoro per forza operaia qualificata - uno dei settori che costituiscono la più solida base sociale elettorale dell’attuale Casa Bianca.
Tutto questo non c’era nel bilancio del 2010 approvato l’anno scorso, tanto meno era nelle 1400 pagine dell’American Clean Energy Security Act del 2009, famosa piattaforma democratica. Un cambiamento di approccio di Obama alla questione energetica è indubbio. A cosa è dovuto? Pragmatismo, opportunismo? O il realismo che deriva da un anno di governo? Torniamo qui alle domande iniziali.
In realtà, per quanto distanti fra loro, la riforma sanitaria e il nuovo programma energetico sono ispirati da un’identica idea. Entrambe sono decisioni che mettono al primo posto l’interesse nazionale. E’ indubbio infatti che sia assolutamente necessario per la maggior potenza mondiale (sia pure non più indiscussa) che nessuno dei propri cittadini rimanga escluso dall’assistenza medica: prima ancora che obiettivo etico è uno stimolo fondamentale alla crescita economica. Gli elementi di stabilizzazione sociale, di coesione e di sicurezza che questa riforma sanitaria contiene costituiscono in prospettiva la migliore assicurazione di ogni investimento sulla ripresa. Ugualmente, in un clima di tensione internazionale così legata al petrolio e al gas, l’indipendenza energetica ha un forte ritorno di sicurezza nazionale oltre che di stabilizzazione economica.
Certo è una declinazione dell’interesse nazionale molto pragmatica, e poco ideologica. Quello stesso pragmatismo, del resto, che, come si è visto di nuovo ieri, porta Obama ad accettare in nome del dialogo le molte arroganze cinesi, senza smettere tuttavia di chiedere al governo di Pechino di aiutare Washington a mettere le redini, via sanzioni, all’Iran. Lo stesso pragmatismo che lo porta a stressare per la prima volta dagli Anni Sessanta le relazioni fra Usa e Israele in nome di un rilancio del progetto di dialogo in Medio Oriente.
Si può ben capire come questo pragmatismo possa sembrare opportunismo, o debolezza, o oscillazione. E come possa fargli perdere pezzi di consenso - cosa che sta succedendo.
Ma se in questo percorso Obama riuscisse davvero a identificare una nuova piattaforma di interesse nazionale, avrebbe trovato la chiave per unire sotto il suo governo più cittadini di quanti possa oggi unirne la politica. In questo senso la frase forse più significativa che ha pronunciato presentando il suo programma energetico è la seguente: «Abbiamo tutti bisogno di andare oltre questo stanco dibattito fra destra e sinistra, tra business e ambientalismo, tra coloro che pensano che il petrolio è tutto e chi pensa che non è nulla. Non possiamo permetterci che il progresso languisca mentre combattiamo le stesse battaglie di sempre».
Più che opportunista, questo Obama appare sempre più dunque come un moderato. E non è detto che la vera rivoluzione non sia proprio l’attuazione di un realistico, coerente, e in questo senso moderato, interesse pubblico.
PS. Se Obama fosse un politico italiano, non avrei scritto questo stesso commento - il giovane Presidente di fronte a eventi di tale portata in Italia sarebbe già stato adottato e/o stracciato, a fasi alterne, da governo e opposizione. Ma il segno della novità della sua leadership (nonché della profonda differenza fra il sistema italiano e quello americano) è invece proprio nel fatto che oggi in America le domande intorno alla natura dell’attuale presidenza possono convivere. E in qualche modo comprendersi.