Giampiero Mughini, Libero 6/4/2010, 6 aprile 2010
L’ARTE DI RISCRIVERE LA REALT
Ci sono due italiani nostri contemporanei ai quali non mi mi pare sia stato reso il dovuto onore a riconoscere il loro estro e la loro creatività, due italiani che hanno saputo creare un mondo a misura della loro fantasia. Parlo di Tommaso Debenedetti, il quarantunenne scrittore e giornalista free-lance, che s’è guadagnato le prime pagine dei giornali americani i quali gli imputano di essersi inventato mezzo mondo di interviste a scrittori e premi Nobel, una delle quali (a Philip Roth) pubblicata da Libero, e del tenente colonnello dei carabinieri Attilio Auricchio, uno che nel 2005 ebbe l’occasione di scrivere un romanzone sul calcio italiano che al confronto ”I tre moschettieri” di Alexandre Dumas era robetta da niente, e che quell’occasione non se l’è lasciata sfuggire, e dal suo romanzone è scaturita Calciopoli con tutti i suoi sfracassi. Due grandi, due grandissimi.
Cominciamo da Debenedetti, uno che appartiene a una famiglia che ha lasciato il suo marchio nella storia letteraria italiana dell’ultimo secolo. Nonno Giacomo, ”Giacomino” per come lo chiamavano gli amici, è stato il più grande critico letterario italiano del Novecento. O meglio è stato il migliore scrittore italiano fra quelli che usavano la critica letteraria come loro strumento di espressione e comunicazione, e questo a partire dalla memorabile edizione del 1929 dei suoi ”Saggi critici” in cui ”Giacomino” scorreva mirabilmente dai romanzi di Marcel Proust alle poesie di Umberto Saba. Suo figlio Antonio è a sua volta uno scrittore e un giornalista di vaglia. Mentre è appena uscito questo suo gustoso libro scritto a quattro mani con Gianni Borgna, ”Dal piacere alla Dolce vita”, in cui la storia della Roma che va dal 1889 al 1960 è ricostruita per episodi e personaggi comunque cruciali, resta nel mio giudizio bellissimo il libro da lui dedicato a suo padre, il ”Giacomino” pubblicato da Rizzoli nel 1994. Un libro che era tutto fuorché sdolcinato e prevedibile; un libro, al contrario, che raccontava un padre difficile e ingombrante, e dunque un rapporto tra padre e figlio che non doveva essere stato tutto rose e fiori.
Il vero talento
Non so quale sia stato e sia il rapporto tra Antonio Debenedetti e il nostro eroe, suo figlio Tommaso. Mi dicono un rapporto in cui non tutto è rose e fiori. Non so. Di certo l’ultimo dei Debenedetti è stato, in un suo modo originale, all’altezza delle tradizioni letterarie della sua famiglia. Fare delle interviste a qualcuno e registrare le sue risposte? Un lavoro da bambini. Tommaso ha fatto molto di più, o almeno così dicono gli scrittori da lui intervistati. Dicono che non lo hanno mai incontrato un solo minuto, che lui s’è inventato tutto. Lì sì che ci vuole talento. Inventarti degli scrittori che non hai mai visto né da vicino né da lontano, farli parlare come tu vorresti che parlassero, mettere loro in bocca delle cose appetibili per un giornale. E farlo non tanto per la paga, perché in Italia un giornalista free-lace porta a casa qualche spicciolo e non più. Farlo per il gusto dell’invenzione. Ma che ci vuole a trascrivere quello che Philip Roth ti sta dicendo; è grandioso fargli dire cose che non ha mai detto e che sono in qualche modo verosimili. Tommaso Debenedetti lo avrebbe fatto per anni e probabilmente avrebbe continuato a farlo per anni. Se non
STUDIO USA
fosse per un errore che non ci saremmo aspettati da uno par suo. Una di quelle interviste fantasiose l’ha pubblicata su Libero, ed ecco che una brava giornalista di Repubblica ha scovato l’inganno, ha messo a nudo il falso. Felice di poter dimostrare che Libero, un giornale animato da ”squadristi rancorosi” (copyright del mio amico Emanuele Trevi), è un giornale di farabutti che si inventano le interviste. Lì è inciampato il Debenedetti della terza generazione, e lì temo si sia arrestato il suo cursus honorum e noi tutti ci siamo persi un personaggio letterario non da poco. Uno su cui varebbe senz’altro scrivere un racconto a spiegare e identificare.
Completamente diverso il caso dell’allora capitano Auricchio. Lui e la sua squadra si rinchiudono in una stanza ad ascoltare le telefonate di Luciano Moggi, l’allora onnipotente ”direttore” di una delle squadre di calcio più forti e famose al mondo, la Juventus. E quanto a telefonate, Moggi ne faceva allora 400 al giorno. (Una più una meno, credo che oggi ne faccia altrettante). Le poche volte che lo avevo incontrato per motivi personali e lui immancabilmente mi invitava in un ristorante torinese a cinque minuti dalla stazione, di telefonini sul tavolo ne metteva due. Altri due li aveva lasciati in macchina. Immaginatevi il lavoro di registrare 400 telefonate al giorno. Auricchio e i suoi prodi ci si buttarono a corpo morto.
L’ho detto, il materiale era tale da
scrivere non uno ma tre romanzi. Moggi che si vanta con un giornalista suo amico di avere rinchiuso un arbitro nel suo sgabuzzino (mai avvenuto). Moggi che millanta credito con ministri et similia dicendo che farà di tutto perché le squadre da loro amate vadano in paradiso. Moggi, uno che vive di pane e calcio, che telefona al suo vecchio amico Giorgio Bergamo e stanno a discutere per mezz’ora su quali siano i cinque migliori arbitri atti a giudicare le cinque partite più importanti della domenica successiva. Moggi che telefona a non so quale Potentisimo e gli dice più o meno così: «Ascoltami, nell’attacco della mia squadra ho quattro pippe inaudite Trezeguet, Ibrahimovic, Del Piero, Mutu gente che la palla dentro non la mette neppure da un centimetro, ti supplico fai assegnare alla Juve tre rigori a partita». (Questa telefonata naturalmente non esiste, né la benché minima telefonata in cui Moggi prometta ”money” o ”girls” a qualcuno che aiuti la Juve).
Linea difensiva
Questa telefonata non esiste, eppure da quello che ascolta Auricchio va in visibilio, e anche se per sua stessa ammissione al processo di Napoli non è che di calcio lui ci capisca gran che. Quando gli avvocati difensori di Moggi gli rimproverano un bel po’ di strafalcioni presenti nel suo ”romanzo”, lui ammette che quegli strafalcioni li aveva ricavati dalla lettura di un quotidiano sportivo. Di calcio non ne sa molto (o forse niente), ma romanza molto. Sa che i lettori ci sono, che l’audience antijuventina è immensa, i due terzi del Paese: due italiani su tre che odiano la Juve più di ogni altra cosa al mondo.
Epperò anche Auricchio fa un errore. Tutto preso dal suo romanzo, non si accorge che di telefonate nell’aria ne circolano molte altre. E sono identiche a quelle di Moggi. Telefonate di dirigenti di un calcio che è diventato in ogni modo una lotta della giungla, e dove i dirigenti di tutte le squadre schiamazzano a favore dei propri beniamini. Schiamazzano, telefonano, vanno a cena con i designatori, discutono con loro a favore di quell’arbitro o contro quell’altro, strizzano l’occhio ai guardalinee se sono stati favorevoli ai propri beniamini. Niente di male, beninteso. Così fan tutti, così è il mondo del calcio, un mondo dove vorticano i miliardi a centinaia. Solo che a scriverlo così, del romanzo auricchiese non si venderebbe una copia. E difatti lui dice a lungo che quelle altre telefonate non esistevano. Ci tiene alla sua creatura letteraria, la difende; né più né meno di come ha fatto Tommaso Debenedetti. E del resto che importa a uno scrittore se la materia del suo romanzo corrisponde alla realtà o è pura fantasia? Per me resta un mistero il perché il colonnello Auricchio non sia fra i candidati allo Strega.