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 2010  aprile 05 Lunedì calendario

Notizie tratte da: Eva Cantarella, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Feltrinelli 2010, pp

Notizie tratte da: Eva Cantarella, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Feltrinelli 2010, pp. 272, 9 euro.

Ambiguo malanno ”Zeus, perché hai dunque messo fra gli uomini un ambiguo malanno, portando le donne alla luce del sole?” (Euripide, Ippolito, 616-617).

Ne Le opere e i giorni Esiodo narra la creazione della prima donna. Irato perché Prometeo aveva rubato il fuoco agli dei, Zeus, per punire gli uomini, decise di mandare loro una sventura: Pandora, la prima donna appunto, il cui nome stava a significare che ogni dio le aveva dato un dono: bellezza, grazia, fascino, abilità nei lavori femminili, ma anche ”anima di cane, e carattere ingannevole”, ”menzogne e blande parole”. Di conseguenza, quando Pandora giunse sulla terra, tutto cambiò. Prima del suo arrivo gli uomini vivevano felici, immuni da fatiche e malattie, ma da quel momento «mali infiniti vagano tra gli uomini: piena di mali invero è la terra e pieno il mare».

«Il più gran male che Dio fece è questo: le donne. A qualcosa par che servano, ma per chi le possiede sono un guaio» (Semonide).

Ad Atene la moglie infedele veniva ripudiata. Il suo amante, se colto in flagrante veniva ucciso, altrimenti era esposto a pratiche vendicative infamanti come il paratilmos, consistente nella rasatura del pube (che, essendo una pratica femminile, era infamante per l’uomo) o alla raphanidosis, consistente in una violenza sessuale praticata con un rafano.

Nell’età classica, in Grecia, era diffusa l’esposizione delle figlie femmine, realizzata sistemando le neonate in una pentola di coccio e abbandonandole per strada. La pratica aveva la funzione sociale di evitare che vi fossero donne in eccesso, destinate cioè a restare nubili gravando sulla famiglia d’origine. Altra consuetudine: vendere come schiava la figlia che il padre rischiava di veder diventare ”vergine canuta”.

Allevate dalle schiave, le ragazze greche non restavano a lungo nella casa paterna: promesse in spose in età a volte infantile (in un noto caso all’età di 5 anni) verso i 14-15 anni si univano in matrimonio con un uomo sulla trentina.

Le ragazze greche non andavano a scuola e in casa non ricevevano nessuna forma di educazione (si limitavano ad apprendere i lavori femminili). Passatempi: le bambole, il cerchio, la palla, la trottola, l’altalena.

Le cerimonie che accompagnavano i matrimoni più fastosi si protraevano per tre giorni. Il primo giorno il padre della sposa faceva offerte agli dei, la sposa offriva ad Artemide i suoi giochi infantili, e i due sposi facevano un bagno nuziale con acqua attinta a una fonte sacra. Il secondo giorno il padre della sposa offriva un banchetto di nozze, al termine del quale la sposa, su un carro, veniva accompagnata nella casa maritale. Il terzo giorno la sposa, nella nuova casa, riceveva i doni nuziali.

Le donne ateniesi, confinate nella parte interna della casa (gynaikonitis) avevano ben poche occasioni di incontrare persone diverse dai familiari: non potevano partecipare ai banchetti (secondo alcuni neanche agli spettacoli teatrali), le compere venivano fatte dagli uomini; ecc. Solo le donne delle classi più povere si muovevano con una certa libertà fra gli uomini, recandosi al mercato a vendere pane o verdura, o, nei demi dell’Attica, lavorando la terra e conducendo gli animali al mercato.

Dice Demostene che l’uomo ateniese poteva avere tre donne: la moglie (damar o gyne) per avere figli legittimi: la concubina (pallake) per ”la cura del corpo”, vale a dire per avere rapporti sessuali stabili; l’etera, hedones heneka, per il piacere (all’etera l’uomo chiedeva, e pagava, una relazione in qualche misura gratificante anche sotto il profilo intellettuale). C’erano poi le pornai, prostitute di basso livello con cui gli uomini avevano scambi occasionali ed esclusivamente sessuali. Tre, dunque, le possibili collocazioni sociali delle donne: mogli, concubine o prostitute.

Ad Atene la legge puniva la prostituzione maschile ma non quella femminile.

Il marito poteva ripudiare la moglie quando desiderava, senza bisogno di giustificarne la ragione, con l’unica conseguenza di dover restituire la dote.

Le donne etrusche sapevano leggere e scrivere.

«Nel descrivere le usanze matrimoniali dei diversi popoli, lo storico greco Erodoto narra che i nasamoni, essendo del tutto promiscui, usano rendere pubblici i loro rapporti piantando un bastone nella casa della donna. Ugualmente promiscui – egli dice – sono gli agatirsi, gli ausei e i macli, i quali, quando un bambino raggiunge i tre anni, decidono chi è il padre sulla base della rassomiglianza. Per non parlare dei gindani, le cui donne si mettono alla caviglia un anello per ogni uomo con cui si accoppiano e godono di un prestigio proporzionale al numero degli anelli».

A Roma, durante i Lupercalia, uomini nudi (i Luperci) armati di cinghie di pelle caprina, fustigavano le donne per combatterne la sterilità.

A Roma, al momento della nascita, i neonati, maschi o femmine, venivano deposti ai piedi del pater che poteva a sua scelta e senza alcun bisogno di spiegarne le ragioni sollevarli da terra prendendoli nelle braccia e con questo accettarli nella familia, oppure lasciarli dove erano stati deposti e quindi abbandonarli a se stessi sulle acque del fiume o in altri luoghi dove erano comunque destinati a morire di freddo o di stenti. Quando si trattava di una figlia femmina, però, la cerimonia era diversa: al padre, se non voleva esporla, bastava ordinare che la bimba fosse alimentata.

Figli, nipoti e ulteriori discendenti potevano essere in qualunque momento venduti dal pater.

Secondo le leggi augustee il marito non aveva più il diritto di uccidere la moglie adultera (che peraltro era obbligato a ripudiare pena l’accusa di lenocinio) ma conservava il dritto di uccidere il suo amante nel caso lo avesse sorpreso in flagranza di reato all’interno della sua casa e qualora costui fosse uno schiavo, un infame (gladiatore, commediante, ballerino, lenone o prostituta) o un liberto.

A Roma le donne, diversamente dagli uomini, non venivano mai indicate col nome individuale ma solo con quello gentilizio e quello familiare (Cornelia, Cecilia, Tullia ecc. non sono nomi individuali ma nomi gentilizi). «E’ difficile a questo punto non condividere l’osservazione di M.I. Finley: non indicando le donne col prenome, i romani volevano mandare un messaggio: che la donna on era e non doveva essere un individuo, ma solo frazione passiva e anonima di un gruppo familiare».

Nel V secolo Macrobio loda come esempio di pudicizia quello di una donna di cui nessuno conosceva il nome.

Alle donne romane era vietato bere vino.

Una lex Oppia, nel 215 a.C., vietò alle donne di portare gioielli in misura eccessiva e di indossare vesti troppo colorate. Nel 169 la lex Voconia stabilì che le donne non potevano ereditare un patrimonio superiore a 200 mila assi, «provocando com’è evidente, una notevole irritazione nelle donne delle classi più alte».

«L’amore rivolto alla moglie di un altro è turpe, quello rivolto alla propria è eccessivo. L’uomo saggio deve amare la propria moglie con giudizio, non con affetto. Nulla è più sbagliato che amare la propria moglie come fosse un’adultera» (Seneca).

Il senatore Manilio che, essendo stato sorpreso a baciare la moglie in pubblico, rischiò di essere espulso dal Senato.

Tra i sistemi di contraccezione usati nella Roma repubblicana: un fegato di gatto legato al piede sinistro o un ragno legato in pelle di cervo e tenuto a contatto col corpo. Altro metodo, decisamente più efficace: una pezza di lana morbida imbevuta in sostanze capaci di impedire la fecondazione.

Verso la metà del I secolo il filosofo Favorino parla della follia delle donne che abortiscono per non avere il ventre deturpato.

Le donne romane, diversamente dalle greche, educavano personalmente i loro figli.

I diritti politici, a Roma come in Grecia, furono sempre riservati agli uomini.

I secoli fra principato e impero furono quelli dell’emancipazione delle donne romane. Ad esempio le aristocratiche esibiscono la loro cultura parlando in greco, frequentano i bagni pubblici, si allenano alla lotta e partecipano alle cacce, bevono vino, si truccano, divorziano come e quando vogliono giungendo (come fece una di loro) a cambiare cinque mariti in otto anni.

Nonostante il divieto fatto alle donne di postulare pro aliis (’fare gli avvocati”) abbiamo notizia di una donna avvocato, Afrania, moglie del senatore Licinio Buccone.

Delle donne che non facevano parte dell’aristocrazia sappiamo poco: a Pompei abbiamo notizia di una Asellina che vendeva bevande calde; a Roma sappiamo di donne che lavoravano nelle botteghe, che facevano le copiste (amanuenses) o le sarte (vestificae). Alcune donne erano pedagoghe, ed esistevano medici di sesso femminile.

’Sta a sentire cosa dovette sopportare il divo Claudio. Appena la moglie Messalina si accorgeva che il marito dormiva, indossava spudoratamente un travestimento notturno, e preferendo, Augusta meretrice, al suo letto imperiale una stuoia, lo lasciava, prendendo per scorta la sua unica ancella. Mascherata poi con una bionda parrucca la nera sua chioma, andava a finire in un lupanare tenuto caldo da una vecchia cortina. V’era una camera vuota riservata a lei sola. Ivi allora, ben nuda, coi capezzoli ornati d’oro, si prostituiva sotto falso nome di Licisca e metteva in mostra quel grembo da cui era nato il generoso Britannico. Così con blande moine riceveva i visitatori e chiedeva loro il suo prezzo, e giacendo supina godeva gli amplessi di molti. Poi, quando il padrone del bordello licenziava le sue verginelle, ella se ne andava a malincuore e, giacché le era possibile solo questo, era l’ultima chiudere la sua camera, sentendosi ancor tutta accesa dal prurito dell’utero teso. Così, quantunque stancata dagli uomini, si allontanava di là non ancora sazia. Con le guance deturpate di nero, insozzata dal fumo della lucerna, ella riportava il fetore del lupanare al suo letto imperiale (Giovenale).

Platone, nella Cistellaria, a proposito di una donna che era morta: «Per la prima volta aveva usato una cortesia al marito».