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 2010  aprile 04 Domenica calendario

BARACK, L´UOMO TRA DUE MONDI LA STORIA CHE HA CAMBIATO L´AMERICA- NEW YORK

«Barry quest´anno sta lavorando a New York cercando di mettere da parte qualche soldino. Da quello che sono riuscita capire al telefono sta lavorando per una organizzazione di consulenza che scrive rapporti sulle condizioni sociali, politiche ed economiche dei paesi del Terzo Mondo. Lui lo chiama "lavorare per il nemico". Però sembra stia imparando un sacco di cose sulla realtà della finanza e della politica internazionale. E penso che tutte queste nozioni gli potranno tornare utili in futuro».
Quando Ann Dunham scrive alla sua amica del cuore, Alice Dewey, in quell´estate del 1983, non può certo immaginare che il suo figliolo, 25 anni dopo, con quelle "nozioni" di economia e politica sarebbe partito all´assalto della Casa Bianca. Ma questa volta per rovesciare l´azione del "nemico": come quell´agglomerato di poteri forti che fino all´ultimo ha tentato di resistere alla rivoluzione della sanità. E siamo solo agli inizi, suggerisce David Remnick, il direttore del New Yorker e premio Pulitizer che in "The Bridge: la vita e l´ascesa di Barack Obama", la monumentale biografia in uscita negli Usa domani, ha raccolto "la storia che ha cambiato l´America". "Il ponte" è quello che apre il libro: l´Edmund Pettus Bridge che ogni anno viene tradizionalmente attraversato per ricordare la celebre marcia da Montgomery a Selma che segnò la nascita del movimento dei diritti civili. Ma "il ponte" è lo stesso Barack: l´uomo tra due mondi. Finalmente riuniti?
Mentre in America riemergono segni di intolleranza - le milizie bianche, le minacce ai governatori di colore su cui l´Fbi lancia l´allarme - il presidente si racconta: «L´America evolve, e a volte questi cambiamenti sono dolorosi. La gente, le nazioni, non progrediscono in maniera lineare. Certo c´è stata eccitazione all´elezione di un afromaericano. Ed è inevitabile che ci anche qualche reazione negativa - non necessariamente in senso cruento e razzista. Ma questo è il frutto del cambiamento. E credo che nessuno possa avere l´illusione, io per primo, che in virtù della mia elezione i problemi razziali siano risolti».
Eppure la storia di Obama, racconta Remnick, è quella di un "afroamericano che ha imparato a diventarlo", lui figlio di una bianca e di un padre venuto dal Kenya (e subito scomparso) e cresciuto in un quel calderone multirazziale chiamato Hawaii. «Ma che razza di nome è Barry per un fratello?» gli chiede uno dei primi amici black del collegio, Eric Moore. «Mi disse che il suo vero nome era Barack Obama. E io gli risposi: questo sì che è un nome davvero potente. Io lo adotterei: io mi sparerei Barack».
Sono gli anni che cambiano quello "studente di livello B" che finora ha pensato soltanto al basket. «Tony, amico mio - scrive all´amico Tony Peterson - prenditi quella benedetta laurea in legge. Un giorno, quando sarà uno giocatore professionista e vorrò fare causa al mio club per farmi pagare di più, ti chiamerò».
L´educazione politica è lenta. All´Occidental College, California, «nel settembre del 1979 - scrive Remnick - divide la stanza A104 con un pachistano chiamato Imad Husain, che adesso è un banchiere a Boston, e Paul Carpenter, che ora è si occupa di mutui a Los Angeles». Ascoltano tanta musica. «Dal suo stereo uscivano i B52, i Talking Heads, i Roxy Music, gli Ub40, Jimi Hendrix, Bob Marley... E il jazz: Miles Davis, John Coltrane e Billie Holiday». La divisa tipica? «Pantalonicini o jeans, T Shirt o camicia hawaiana e sandali infradito». E quella Marlboro che gli pendeva dalle labbra: «Fumavo per tenere il mio peso giù. Dopo che mi sono sposato ho smesso, per Michelle: e sono ingrassato».
La svolta arriva con New York. Con l´amico Phil Boerner prende un appartamento al 142 west della 109esima strada, 360 dollari d´affitto in due. «Vagabonda per la città, prega all´Abyssinian Baptist Church, poi una conferenza socialista alla Cooper Union, fiere africane a Brooklyn e Harlem». Ma come diventa Barack Obama?
«Sai - confessa oggi il presidente - io sono affascinato quando leggo dei miei insegnanti che dicono: è sempre stato un grande leader. Quel tipo di preveggenza zoppica un po´. Io so solo che arriva una fase in cui, per qualche ragione, un bel po´ di cose che fino ad allora mi ero tenuto dentro - quelle domande sull´identità, sul significato delle cose, le questioni non tanto sulla razza ma sulla natura internazionale della mia educazione - tutte queste cose sono cominciate a convergere in una certa direzione. E questo è il periodo in cui mi sposto a New York e vado alla Columbia. Scrivo un sacco, leggo un sacco, passeggio un sacco per Central Park. Ma in qualche modo ho anche voglia di confrontarmi con quella possibilità che sembra un po´ avventurosa: spostarmi a Chicago per impegnarmi nell´organizzazione, in politica». la svolta. «Forse è stata una combinazione di fattori: la morte di mio padre, io che ho capito che non l´avevo mai conosciuto, io che dalle Hawaii mi sono spostato in un posto stimolante come New York. Difficile dirlo».
Certo è che Barack Obama è nato così. Il resto è storia. Fino a quel giorno in cui lo svegliano per dirgli che ha vinto il Nobel e lui risponde in maniera irriportabile. «No, politicamente non è stato un aiuto» ammette oggi. «Noi ci scherziamo su: ma l´unica cosa che non mi sarei aspettato quest´anno era di dovermi scusare per aver vinto il Nobel per la Pace».