MASSIMO GIANNINI, la Repubblica 4/4/2010, 4 aprile 2010
GERONZI, GENERALI E MEDIOBANCA LA PROSSIMA BATTAGLIA SAR LA FUSIONE - A
pochi giorni dall´assemblea del 24 aprile, che sancirà il passaggio di Cesare Geronzi al vertice delle Generali e la contemporanea ascesa di Renato Pagliaro al vertice di Mediobanca, una domanda continua a rimbalzare tra Roma, Milano e Trieste. Chi sarà il vero «capo» della Galassia del Nord? Dalla partita delle deleghe che si è giocata due settimane fa in Piazzetta Cuccia, Geronzi è uscito parzialmente sconfitto.
Nella nuova governance del Leone Alato il presidente non avrà incarichi operativi, sarà «accerchiato» dai vicepresidenti Bollorè e Nagel, e «commmissariato» nella gestione dai manager, Giovanni Perissinotto come responsabile delle strategie di gruppo e Sergio Balbinot come responsabile dell´attività assicurativa. Ma questo assetto vale in teoria. Nella pratica, il banchiere di Marino trasloca a Trieste con progetti bellicosi. Chi gli ha parlato in questi giorni lo ha sentito ripetere un vecchio motto che lo guida fin dai tempi della Cassa di Risparmio di Roma: «Le deleghe? E che me ne faccio delle deleghe? Per me l´unica delega che conta è alzare il telefono. E quella nessuno me la potrà mai togliere...».
Questa è molto più che una battuta spiritosa. Sembra piuttosto una «piattaforma programmatica». Geronzi alle Generali vuole contare. Come contava alla Cassa di Roma, quando scavalcava Pellegrino Capaldo. Come contava in Capitalia, quando combatteva con Matteo Arpe. Come contava nella fusione con Unicredit, quando litigava con Alessandro Profumo. E come ha contato in Mediobanca, quando ha orientato tutte le scelte strategiche sulle controllate. Perché ora, a parità di condizioni, non dovrebbe contare a Trieste, continuando ad esercitare anche solo quell´unica delega che per lui ha funzionato sempre, e cioè la «diplomazia del telefono»? Qualcosa in meno di un potere formale, qualcosa in più di una semplice «moral suasion». Ma stavolta non sarà facile come in passato.
A dispetto della propaganda geronziana, dilagante non solo nei Salotti Buoni della finanza e nei palazzi romani della politica ma battente anche in diversi circuiti mediatici e giornalistici, le roccaforti del potere del Nord sembrano intenzionate ad arginare i disegni cesaristi. Intanto, l´«arrocco» è stato meno perfetto del previsto. Il passaggio alle Generali, funzionale alla blindatura del capitalismo «a suffragio ristretto» (come lo chiamava Fabrizio Barca già nel lontano 2001), non è avvenuto come il banchiere laziale lo aveva congegnato. Geronzi avrebbe voluto un trasloco puro e semplice: «Intanto io vado alle Generali, poi per Mediobanca si vedrà», era il suo ragionamento. I soci di Piazzetta Cuccia, su questo, lo hanno stoppato. Da una parte Profumo, e attraverso di lui il governatore della Banca d´Italia Mario Draghi, e i francesi di Axa. Dall´altra parte i manager, e cioè Nagel e Pagliaro. Questa insolita «tenaglia» si è stretta intorno a Cesarone, e lo ha costretto ad accettare un metodo che lui non voleva: quello della piena «contestualità» tra il suo passaggio alle Generali e la designazione del suo successore in Mediobanca. Questa «condizione irrinunciabile», come l´aveva definita Profumo, ha costretto Geronzi ad accettare che già nel comitato nomine del 27 marzo scorso si scegliesse tra i manager il suo erede in Piazzetta Cuccia, e si ridefinisse da subito la futura governance nel Leone Alato, con un assetto che di fatto introduce una sorta di «camicia di forza» intorno al presidente.
«In questo modo – come racconta un´autorevole fonte milanese – non solo si è rispettata la storia di Mediobanca, ma si è impedito in prospettiva che il "controllore", cioè la stessa Mediobanca, finisse per diventare una "controllata" delle Generali». Non solo. In questo modo, come si sostiene in Piazzetta Cuccia, «è stato difeso il prestigio e l´autonomia dalla politica di questa istituzione della finanza italiana, garantendo non solo la continuità manageriale, ma anche la possibilità di crescita futura: cosa ha fatto Geronzi, in questi anni, per rendere più grande e più forte Mediobanca?». Poco o nulla, se non conservare gli equilibri consolidati e perpetuare i conflitti di interesse, al centro e in periferia. Al punto che gli unici segni di vita emersi in questi anni si devono al management (cioè a Nagel e Pagliaro) e vanno dall´apertura di qualche sede estera al lancio in grande stile di Che Banca!. Non a caso il titolo Mediobanca, che capitalizza in Borsa poco più di 7 miliardi, ha sofferto molto ed è tuttora decisamente sottovalutato secondo gli analisti finanziari. Queste stesse perplessità hanno convinto il socio forte Unicredit e il board di Piazzetta Cuccia a non concedere carta bianca a Geronzi sulle future strategie di Generali, che per Mediobanca rappresenta al tempo stesso la partecipazione più preziosa (circa metà del suo intero valore, oltre 2 miliardi a valore di libro) ma anche più ingombrante (in ragione dell´intreccio azionario che si porta in pancia). Infatti, o il banchiere di Marino è portatore di un progetto industriale di grande respiro per il Leone Alato (e al momento non risulta che sia così, salvo le varianti che vedremo poi) oppure non è lui l´uomo su cui puntare per il rilancio della compagnia triestina. Rilancio necessario, perché anche Generali (come Mediobanca) pur avendo in cassaforte 400 miliardi di massa amministrata (un terzo dell´intero Pil italiano) e pur avendo un «Return on equity» del 12% atteso nel 2010 (contro il 10% della media dei competitori europei), ha comunque bisogno di un piano ambizioso per il futuro. La prudenza negli investimenti e la gestione conservativa di questi ultimi anno hanno messo la compagnia al riparo dai rischi globali, ma nel lungo periodo non appaiono compatibili con gli sviluppi del mercato. Geronzi, allo stato attuale, non sembra in grado di garantire una svolta, se non quella di trasformare la compagnia in una sorta di ministero delle Attività produttive, attraverso il quale risolvere (per conto del governo Berlusconi) le questioni irrisolte del sistema, da Alitalia a Telecom. Di qui il «cordone sanitario» costruito intorno a lui, per neutralizzarne i disegni sempre sospesi tra l´economia, la finanza e la politica.
Il banchiere di Marino tutto questo lo sa. Per questo affila le armi e ripete: «Vedremo chi comanda...». Deleghe o no, è convinto di poter essere ancora il «dominus», sia a Milano che a Trieste. I suoi «esegeti», numerosi nei giornali, non vedono ostacoli insormontabili. Neanche nella Yalta delle deleghe. Nei giorni scorsi Angelo De Mattia, ex braccio destro di Antonio Fazio e sodale di Geronzi fin dai tempi lontani della Banca d´Italia, ha scritto su «Mf» che per capire la portata dei poteri tutt´altro che onorari del presidente basta leggersi l´articolo 32 dello statuto delle Generali. «Il presidente coordina le attività degli organi societari, controlla l´esecuzione delle deliberazioni dell´Assemblea, del consiglio d´amministrazione e del comitato esecutivo, ha la sorveglianza degli affari sociali e sulla loro rispondenza agli indirizzi strategici aziendali». «C´è bisogno d´altro per poter disporre della leadership della compagnia?», si chiede De Mattia, facendo eco a quel «potere d´influenza» che Geronzi punta a conservare anche solo attraverso la cornetta del telefono.
Ma c´è di più, nel sogno «imperiale« del Cesare della finanza italiana. E questo di più è la fusione tra Generali e Mediobanca. Un obiettivo accarezzato da tempo, e più volte negato dallo stesso Geronzi. «Voi sognate», disse in autunno il banchiere, ai cronisti che gli chiedevano conto di questa intenzione segreta. «Non c´è all´esame alcun progetto di fusione», ribadiva il 3 febbraio scorso, dopo le anticipazioni di «Repubblica» sulla possibile fusione Milano-Trieste. Ma cosa valgono queste smentite? Quante volte, nei mesi scorsi, Geronzi ha smentito seccamente le voci sul suo passaggio alle Generali, salvo poi imporlo (sia pure con qualche paletto) ai soci di Piazzetta Cuccia? Dunque la «pazza idea» resta in campo, nonostante tutto. Le formule possibili sono due. La prima formula è il cosiddetto «reverse merger», cioè la fusione inversa tra due società, dove la più grande (Generali) viene incorporata dalla più piccola (Mediobanca), con un meccanismo che vedrebbe le quote della seconda diluite nel capitale della prima, con gli azionisti della ex controllante «premiati» con ricchi pacchetti azionari della ex controllata. Sistema che consentirebbe a soci attualmente forti in Generali, come Caltagirone e De Agostini (da sempre vicini al banchiere laziale) di diventarlo anche in Mediobanca, con il suo reticolo di partecipazioni nei santuari del capitalismo nazionale. In questa ipotesi, Geronzi punterebbe proprio su questi ultimi, per farsi garantire la guida del colosso nato dal «merger». La seconda formula è una fusione più classica, che prelude però ad una successiva scissione: da una parte la costituzione di una holding di partecipazioni, che controlla tutte le quote conferite dalle due società fuse, e dall´altra la creazione della Spa operativa, metà bancaria metà assicurativa. In questa ipotesi, Geronzi punterebbe ovviamente alla guida della holding, per continuare a decidere le sorti delle partecipazioni strategiche dell´intera Galassia a quel punto «allargata», da Rcs a Telco, da Pirelli a Intesa.
Sembra fantafinanza. Profumo e i manager di Piazzetta Cuccia sono pronti a tutto, pur di sventare questa diabolica partenogenesi da vecchio capitalismo autoreferenziale. Gli analisti finanziari sono scettici, sia per la complessità tecnica dell´operazione, sia per le difficoltà politiche nella sua realizzazione. Ma è un fatto che, ogni volta che l´ipotesi torna in auge, la Borsa si infiamma, ci crede e ci scommette. Ed è un altro fatto che, a dispetto di tutte le previsioni, il rafforzamento del governo e della maggioranza dopo le regionali è manna piovuta dal cielo per Geronzi, legato a doppio filo sia al blocco berlusconiano incarnato da Gianni Letta, sia al blocco leghista imperniato su Giulio Tremonti. Anche stavolta, come è già accaduto nel recente passato, pioveranno le smentite. Ma la lezione di questi mesi, nel caso Mediobanca-Generali, è che le smentite confermano. Nel pre-moderno Jurassic Park del capitalismo italiano comincerà presto un´altra battaglia per la sopravvivenza.