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 2010  aprile 04 Domenica calendario

RESURREZIONE - A

che cosa non credono i cristiani non credenti? A una soprattutto: alla resurrezione. Non credono alla resurrezione di Lazzaro. Né a quella di Gesù, né a quella delle persone che hanno amato e perduto - né infine alla propria resurrezione. La Pasqua è per loro una festa singolare. Il Natale è più facile da maneggiare, per quel fiabesco e infantile che conserva, e il dispiego di rosso che accende gli inverni del nord. La Pasqua cristiana, innestata su quella ebraica, è fatta dei due momenti opposti e complementari: la crocifissione e la resurrezione. I non credenti commemorano la passione e la sua replica infinita attraverso i secoli: il giusto calunniato umiliato e messo a morte. La morte perfeziona e completa la vita di Gesù.
Per i credenti, quella morte è il passaggio verso il compimento della resurrezione. Tra l´una e l´altra c´è una distanza enorme e al tempo stesso strettissima, come l´arco di tre giorni nei quali gli stessi discepoli, che pure hanno visto Lazzaro alzarsi, non credono ancora. Nei vangeli, la distanza si attenua progressivamente, fino al racconto di Giovanni in cui la disperazione solitaria della croce che chiude il vangelo di Marco diventa già un innalzamento, un´esaltazione, e il grande grido tragico dei sinottici, «Perché mi hai abbandonato?», si piega nell´esclamazione: « compiuto!» (Rimando al gran commento di Giancarlo Gaeta per i Millenni). Altri testi e altre fedi vorranno cancellare del tutto lo scandalo e la mortificazione della croce immaginando un sostituto a Gesù nel supplizio, o una sua sopravvivenza in regioni lontane. Sono, quei tre giorni, come una terra di nessuno - o piuttosto una terra di angeli e di donne - nella quale tanti continuano ad abitare, con speranza, con rassegnazione, o con lucidità. Si vuole che una distanza abissale separi chi crede da chi non crede, il Cristo da Gesù - come dal cielo alla terra. Questa distanza si è tramutata e può mutarsi ancora in una reciproca esclusione. Tuttavia, e per fortuna, può farsi impercettibile nella convivenza quotidiana e volgersi, meglio che in tolleranza, in una mutua simpatia e comprensione.
 piuttosto naturale che si avverta la fede come un di più dato per grazia, e la sua assenza come una mutilazione dalla resurrezione e dalla verità, e dalla vita eterna. A volte, chi non crede sente anche lui così, e dichiara perciò una nostalgia per il dono della fede da cui è escluso. Altre volte il non credente non si riconosce nella sensazione di vita mutilata e si contenta della propria finitezza, senza rinunciare perciò a una promessa di resurrezione. Ho letto uno scritto di Gianfranco Ravasi per la scorsa domenica delle Palme, sulla passione di Cristo, che ripercorre tutta la galleria oscura della sofferenza, il tradimento, la paura, il senso di abbandono e la fine. «Nessuno muove un dito, nemmeno il Padre celeste... e Gesù s´inoltra lungo la via stretta dell´agonia e della morte. In quell´istante estremo egli è veramente fratello dell´umanità ed è sulla vetta del Golgota che si celebra l´atto supremo di ogni fede e fiducia in Dio». E cita Bonhoeffer: «Cristo non ci aiuta in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù della sua sofferenza». Ravasi completa certo il suo riassunto cristologico con la resurrezione, che redime l´esistenza umana «dalla schiavitù della corruzione, della morte, del peccato». Tuttavia la parola impegnativa è stata detta: è l´esperienza comune a tutti gli umani della sofferenza e della debolezza a rovesciare lo scandalo della croce, il supplizio infamante, nel suo contrario. Gli umani si riconoscono come in un proprio simile, il meno imperfetto dei propri simili, nel condannato a morte giustiziato accanto a due banditi compagni di pena. Forse è quando si sente soprattutto erede della gloria della resurrezione, fino a mettere in ombra l´agonia del Golgota, che la Chiesa rischia di allontanarsi dal dolore umano.
Scrivo di questo oggi, a Pasqua, per il desiderio di veder comparire sul giornale il titolo: Resurrezione. Penso che possa far animo a tanti. il titolo che Tolstoj diede a uno degli ultimi suoi romanzi, e più faticosi. Lo riscrisse lungo una quindicina d´anni. Era scandaloso, perché Tolstoj era scandalizzato: dalla giustizia umana, dalla Chiesa, dalla buona società, e dai tribunali. Vi sosteneva cose che nessuno di noi - nemmeno io, avanzo di galera - ardirebbe di sostenere, che non si devono compiere stregonerie nei templi, che si deve pregare in solitudine in spirito e in verità, che non si deve giudicare, che le carceri non devono esistere. Cose da pazzi, con un unico appiglio, il vangelo. Anche il vangelo è scandaloso, perché Gesù era scandalizzato. «Soprattutto, aveva proibito che gli uomini venissero giudicati e tenuti in carcere, tormentati, disonorati e puniti, e aveva proibito ogni violenza, dicendo che era venuto a rimettere i prigionieri in libertà».
Il protagonista di Resurrezione, il principe Nehljudov, scopre d´un tratto la miserabilità della propria vita perché si trova a dover giudicare una giovane prostituta, accusata e condannata a torto. stato lui, Nehljudov, a corromperla giovinetta, e d´ora in poi sarà ossessionato dalla volontà di riparare. C´è una Pasqua cruciale nel libro, e mostra la gioia commovente di una comunità di contadini che, al modo ortodosso, si salutano dicendo: «Cristo è risorto», «Davvero è risorto», e baciandosi tre volte sulle labbra. Il giorno della Pasqua non è evocato a chiudere il romanzo, quando il protagonista trova nella nuova lettura del Vangelo la risposta a ciò che cercava, e nemmeno a segnare le tappe del riscatto suo o della giovane donna. Al contrario, proprio alla fine di quel giorno, della sua aura di gioia e di devozione, il giovane Nehljudov ha compiuto la sua opera di seduzione e di abbandono. «Tutta quella terribile faccenda è avvenuta dopo quella notte di Pasqua!». La sua resurrezione avverrà solo dopo la perdita di sé, della terra e della ricchezza, e del proprio orgoglio, nella Siberia dei forzati. «Non dormì per tutta la notte e, come accade a tanti che leggono il Vangelo, per la prima volta, leggendo, comprendeva in tutto il loro significato parole tante volte lette senza farci caso».
Si immeschinisce la vicenda della resurrezione dentro storiacce di giustizia statale, di processi e condanne e galere? No, solo a ricordarsi che la passione è la storia di un processo e un´esecuzione capitale. La giustizia terrena, quella per cui si usano parole come Amministrazione, deve a suo modo porsi il problema di cui stiamo parlando. scritto perfino in un articolo della Costituzione, lo stesso che ripudia la pena di morte. «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Il nostro lessico, perché è specialistico, o perché si vergogna, dice rieducazione, o riabilitazione, o risocializzazione, parole sociologiche o pedagogiche o politiche, perché non si può mettere la resurrezione in Costituzione, e tantomeno in un regolamento penitenziario. Le carceri sono fitte come non mai, anche se è improbabile che vi si trovi un Gesù. Ancora meno probabile che ci sia più qualcuno capace di riconoscerlo. Ma poveri cristi sì, a migliaia. Dentro, e fuori. A volte lasciano un´impronta su un sudario, l´impronta di un ragazzo macilento tossico e pestato. E quanto a chi compie il suo crudele servizio, scrive Tolstoj, forse non potrebbe farlo senza appoggiarsi alla propria malintesa fede: «Se non ci fosse stata quella fede, non solo per loro sarebbe stato più difficile, ma, forse, perfino impossibile, utilizzare tutte le loro forze per tormentare gli altri, come facevano con perfetta serenità di coscienza».
 di questo che si tratta, la resurrezione, per tutti, dentro e fuori. Possiamo risuscitare, due o tre volte, prima di essere morti del tutto.