Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  aprile 02 Venerdì calendario

1 ARTICOLO PIù BRANI DEL DIARIO - ROBERTA TATAFIORE E IL DIARIO SCRITTO PRIMA DEL SUICIDIO

«Non ho più voglia di reggere ai loro assalti. Preferisco comporre la mia morte». C´è qualcosa che inquieta e affascina nel commiato di Roberta Tatafiore, un lucido e appassionato diario che accompagna la scelta del suicidio. Ed è la normalità del suo gesto, non più pulsione estrema ma atto meditato, non scatto dissennato e violento ma scelta necessaria, una possibilità di vita che non ammette lacrime né intonazioni funebri, e nella sua naturalezza assai più conturbante della lacerazione prodotta dalla follia. Un corpo a corpo con la morte condotto per tre mesi attraverso una scrittura sorvegliata e nitida, quasi a voler difendere in tutti i modi - anche esteticamente - la dignità del congedo, spogliato di quel carico di risentimento che ogni suicidio porta con sé.
Protagonista del primo femminismo e saggista curiosa dei territori marginali - specie il mercato del sesso e la prostituzione -, Roberta Tatafiore s´è suicidata l´8 aprile dello scorso anno. Ha salutato la sua casa romana dietro piazza Vittorio, imbucato le lettere per cinque amici, un breve passaggio dal parrucchiere - guai morire in disordine - e prenotato una stanza al "Novecento", un grazioso alberghetto di tre stelle all´Esquilino. La cameriera l´ha trovata agonizzante, sul comodino le Operette Morali di Leopardi e un cocktail micidiale di farmaci.
Roberta aveva "composto" la sua morte con la stessa cura con cui preparava i suoi articoli: le missive "a orologeria", i regali postumi scelti con amore, la casa lasciata integra, senza ombre cupe di morte, confinate in un´anonima stanza di pensione. E poi questo straordinario journal del naufragio, documento unico nel suo genere, centoventi pagine che meticolosamente scandiscono la preparazione del gesto conclusivo, dal primo gennaio al 31 marzo del 2009. Il titolo scelto dagli amici è La parole fine, quasi a rimarcare la centralità della narrazione, tramite ultimo e necessario (Rizzoli, pagg. 150, euro 17, in libreria da mercoledì 7 aprile). «Poco prima di Natale», annota Roberta, «mi rendo conto che la morte è pronta, la scrittura mi trattiene». Le parole sono le uniche depositarie di senso. Ed è solo ad esse che si può affidare «la storia dopo la vita».
Quella che si svolge in Comporre la mia morte - così il titolo originario scelto dalla Tatafiore per il suo manoscritto - è una dolente «familiarizzazione con il suicidio», che comincia dalle donne capaci di «trasfigurare in poesia il gesto ultimo», Sylvia Plath ed Anne Sexton, Marina Cvetaeva ed Amelia Rosselli. La letteratura diviene l´ancoraggio in «quell´ondeggiare tra l´esistere e il dissolversi» che è la preparazione alla morte per propria mano.
Di citazioni letterarie è ricco questo diario - da Pierre Bezukhov al principe Bolkonskij, dall´Adriano della Yourcenar al dostoevskiano Kirillov dei Demoni, da Levé a Camus -, suicidi fittizi e suicidi reali si rincorrono nelle pagine, ma non c´è compiacimento estetizzante, talvolta affiora anche un filo d´ironia per lo stile "casalingo" scelto da Plath o per i bei tempi andati in cui si poteva scegliere all´ultimo momento la stanza in cui morire - al modo di Pavese - senza dover prenotarla per tempo a causa del turismo di massa. Come se l´autrice fosse ben consapevole dell´inganno di quel gesto estremo, l´esibizionismo e l´ipertrofia dell´ego, e voglia ripararsene scavando nella verità dell´atto, fino a trovare quiete nelle parole di uno psichiatra, Giorgio Antonucci: «La scelta del suicidio non è pura e semplice volontà di morire. Ci si può uccidere per eccesso di voglia di vivere», quando le forze ti abbandonano. Quando non ti permettono più di "esercitare la virtù", scrive Roberta richiamandosi a Seneca.
Quali fossero i fili spezzati della sua "turbinosa" esistenza - come la definisce Daniele Scalise nella meditata introduzione - emerge dalla storia famigliare, ferite mai curate che scaturiscono da un rapporto irrisolto con la mamma «intellettuale mancata» e da una relazione ancora più complicata con la figura paterna, rispettata ma mai amata. «Nata sotto le bombe, succhio nel latte materno lo sconquasso tardo e postbellico che investe la famiglia».
Figlia della microborghesia foggiana, classe 1943, Roberta è resa fragile dalle fortune alterne del padre Guido, ingiustamente epurato dopo il fascismo, e dall´emancipazione incompiuta della madre, fino a quell´epilogo insensato che conferisce alla famiglia un destino di tragedia: l´uccisione del genitore - finalmente reintegrato a Roma - per mano di un pazzo. Roberta ha 18 anni, la sua vita definitivamente segnata. Ma le «fantasie mortifere» erano cominciate fin da bambina, come «un´antenna che capta il dolore disperso nell´aria».
Può essere letto anche come un "gesto politico" il diario lasciato dalla Tatafiore. Coerentemente al suo profilo di combattente, la riflessione privata si rispecchia nella discussione pubblica sul testamento biologico e l´eutanasia (non casuale la sua scelta di pubblicare alcuni articoli dedicati al caso Englaro), e il senso di queste pagine si potrebbe riassumere nell´interrogativo: «A chi appartiene la vita? Credo che la vita appartenga a ogni individuo libero di affidarla a chi vuole in base a ciò che gli suggerisce la coscienza».
Prima di arrendersi al dolore della sua esistenza, l´ultimo saluto è per "l´amica-che-sa", l´amica che con lei condivide l´agonia dell´attesa. La incontra nella sua casa, l´abbraccia e nell´accomiatarsi le dice che la saluterà dalla finestra. «Anche mia madre mi salutava così», dice l´amica. A Roberta è rimasta una sola certezza: «Le nostre madri, sono sicura, ci aiuteranno».
***
"VOGLIO CREARE IL VUOTO INTORNO A ME" - Per gentile concessione dell´editore Rizzoli anticipiamo alcuni brani tratti da "La parola fine"
1° gennaio
Comincio a familiarizzare con il suicidio come corpus letterario e scientifico e come propaggine del discorso attuale intorno alla fine della vita. Comincio a familiarizzare con il suicidio come obiettivo da realizzare senza cedere alla disperazione di un momento bensì prendendomi tutto il tempo che occorre per costruirlo a poco a poco (...). Secondo: passo giornate intere tra il tavolino del computer, gli scaffali della libreria e il grande tavolo del soggiorno rileggendo pagine di libri sottolineate più e più volte, riordinando annotazioni, sparpagliando intorno carte di tutti i tipi. Praticamente lavoro, come se stessi preparando un libro, un articolo particolarmente impegnativo (...). Ma, via via che i giorni passano, mi rendo conto che non è possibile raggiungere l´obiettivo del suicidio senza operare tagli consistenti all´economia quotidiana: ho bisogno di creare intorno a me quanto più vuoto sia possibile (...).

2 gennaio
Circa il 20 per cento di suicide e suicidi lascia il cosiddetto "ultimo messaggio", spesso proprio accanto al cadavere, quindi a disposizione di chi quel cadavere trova, in cui chiede scusa e perdono. Come se, mostrandosi pubblicamente contriti nei confronti delle persone care, si possa lenire il loro dolore. Come se essersi arresi al proprio dolore sia qualcosa di cui vergognarsi. Come se darsi la morte sia un gesto innaturale di dispregio del mondo e degli umani di cui discolparsi. Non voglio accomiatarmi con scuse e perdoni coram populo. Piuttosto scriverò lettere private. Lascerò doni alle persone care. Lascerò anche questo diario, naturalmente. Nelle mani giuste e in maniera discreta (...).

3 gennaio
Mi chiedo però se il campo minato di bugie-cocomero sul quale mi devo destreggiare non sia che un trucco della mente inventato apposta per essere scoperta. In questo caso dire tutte queste panzane può essere un modo surrettizio per sfidare proprio coloro che tengo lontani a occuparsi di me. E per ordire a loro danno un ricatto postumo: «non vi siete accorti di niente, e così mi sono ammazzata». Che orrore. Spero che il mio inconscio non sia così persecutorio come ora mi appare. D´altra parte: c´è risentimento e rabbia nel suicidio.

2 febbraio
La decisione è no. Non andrò a morire da Dignitas. Lo farò a Roma, non a casa però. Prima di tutto perché non posso sopportare l´idea che Lucky capisca più di quanto sarà obbligata a capire. Inoltre, a meno di uccidermi il giorno prima dell´arrivo di Carmen, obbligando lei alla scoperta (il che non mi sembra per niente carino), rischierei di essere trovata non so quanti giorni dopo e non intendo offrire lo spettacolo della carne un po´ o tanto puzzolente e decomposta. Né voglio che chi erediterà la casetta debba fare i conti con il passaggio del suicidio tra queste mura. Piuttosto andrò in albergo, non so ancora quale...

26 marzo
Mi piacerebbe morire con alcune persone che amo intorno. Come il cicciottello di Le invasioni barbariche triste e impaurito al momento dell´iniezione letale somministrata dall´esperta in droga e in compassione, capace di trovare le parole buone e giuste per consolarlo: «Pensa che in questo momento, in tutto il mondo, milioni di persone stanno morendo assieme a te». Sarebbe bello se potessi godere di una messa in scena analoga. Ma non è possibile perché il suicidio esistenziale non crea tra il morente e i sopravviventi quei legami reali consolidati da secoli e secoli di significazioni. Non dà spazio, come la morte volontaria per malattia o vecchiaia, a forme di coralità. Le significazioni della morte per suicidio esistenziale vogliono che essa, già prima di darsi, faccia terra bruciata intorno, spogli il suicida dei legami reali e li sostituisca con fantasie e fantasmi sui medesimi. Lo stesso meccanismo fantasmatico coglie gli amici e i parenti del suicida, ma in maniera asincrona: non prima a suicidio compiuto...