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 2010  aprile 02 Venerdì calendario

QUEI MEDICI IN AFRICA CHE RISCATTANO L´ITALIA

Il sentimento più diffuso, oggi in Italia, è la vergogna. Quasi tutto il Paese sente di essere decaduto, corrotto, degradato: giunto al punto estremo della volgarità e della turpitudine; sull´orlo di una stupidità che si allarga ogni giorno senza riparo. Sembra una condizione senza speranza: non si vede e non si intuisce, da nessuna parte, una possibilità di cambiamento; nessuna strada, nessuna metamorfosi, nessun segno. E certo, se accendo la televisione e scorgo il viso avvinazzato del russo-siciliano ministro La Russa, o gli occhi rossi, il viso quasi suino, i brufoletti cosparsi con grazia sui lineamenti di Antonio Di Pietro-, ho una sola tentazione: prendere il treno, e trasferirmi, per tutto il resto della mia vita, sulle rive del lago di Lucerna.
Qualche volta, forse, il nostro sentimento di vergogna è eccessivo. L´Italia è un Paese pieno di eccezioni; e, al nord, al sud o al centro, c´è una piccola oasi, un paese o una cittadina polverosa di secoli, di cui uno, appena le vede, ama le strade, le case, gli orti, e persino i cittadini. Quasi sempre, sono oasi cristiane: lo spirito dei Vangeli non è morto in Italia; qui affiora una frase, là una sentenza, o un incitamento, che qualcuno pronunciò, duemila anni or sono, lungo il lago di Tiberiade.
Vorrei ricordare una realtà importantissima e quasi sconosciuta: Medici con l´Africa, Cuamm, nato a Padova, e diffuso nell´Africa al sud del Sahara, dove migliaia di medici cercano da sessant´anni di ricordare, agli africani e a sé stessi, le parole dei Vangeli.
Il documento originale del Cuamm affermava: «Siamo convinti che la salute non sia un bene di consumo, ma un diritto, che non può essere venduto e comprato» San Giovanni ricordava: «Voi siete nel mondo, ma non del mondo».
In Africa si muore di malaria, di morbillo, di tubercolosi, di Aids. Ogni anno 273.000 donne muoiono di parto. 3.500.000 bambini di malattie che avrebbero potuto essere facilmente curate. In Rwanda il 75 per cento dei bambini hanno assistito a un omicidio: il 55 per cento all´uccisione di un membro della famiglia. Questa ferita infantile è stata irrimediabile. Per anni le menti dei bambini hanno sofferto immagini fisse, incubi, delirii, disturbi nell´attività sensoriale, o una totale incapacità a provare un sentimento d´affetto, perfino un´ombra di tenerezza. I medici sono pochissimi. In Etiopia, tre medici, ventun infermieri e un´ostetrica ogni centomila abitanti: in Tanzania, due medici e trentasette infermieri ogni centomila abitanti.
Dopo sessant´anni di vita del Cuamm, oggi centinaia di ospedali e di scuole infermieristiche sono nate nell´Uganda, nella Tanzania, in Angola, nel Rwanda, nel Sud Sudan e nell´Etiopia. Sullo sfondo, stanno le donazioni di cittadini italiani: quei cittadini che, quando li vediamo alla televisione, ci sembrano così loschi, sciocchi e volgari, e privi di qualsiasi spirito cristiano. Quando Medici con l´Africa apre un ospedale, neppure un euro delle somme spese passa attraverso un negoziato con i governi locali: la somma raccolta in Italia viene interamente investita nella costruzione dell´ospedale; e i medici gestiscono direttamente gli aiuti. I medici italiani formano a poco a poco corpi di medici e di infermieri locali: cominciano dal minimo – bere acqua potabile, lavarsi le mani, usare gabinetti puliti, dormire sotto una zanzariera – ; e poi, via via, insegnano le più difficili operazioni chirurgiche, fino al momento in cui ugandesi ed etiopi bastano a sé stessi. Non c´è nessuna imposizione: non esiste divisione di razza; soltanto un´infinita attenzione e pieghevolezza verso i casi della vita. Forse i medici italiani hanno portato laggiù qualcosa che l´Africa non conosceva. Per secoli l´Africa ha vissuto di rassegnazione: c´era sempre un uomo politico potentissimo davanti a cui chinare il capo; o una sventura intollerabile da affrontare. I medici cristiani hanno insegnato che non bisogna mai rassegnarsi: che non bisogna mai, in nessuna condizione, a nessun costo, accettare compromessi o mezzi termini.
Intanto, attorno ai nuovi ospedali, continua la vecchia vita dell´Africa: quella vita che ci sembra, e forse è, immutabile. Tutti gli africani hanno un senso del rapporto con la terra, che gli europei non posseggono più: nascere sulla terra come animali, toccare la terra con le mani e le piante dei piedi; lavorare la terra senza nessun senso di proprietà; perché l´unico diritto che un africano conosce non è possedere la terra, ma lavorarla. Gli uomini arano, gli adolescenti mietono e trebbiano, i bambini proteggono le piantagioni dagli assalti degli uccelli. Il cuore delle famiglie sono le donne. La mattina, le madri lasciano la capanna, per provvedere alla ricerca e all´organizzazione del pasto: mentre, nella capanna, dove non ci sono più adulti, la «sorella più grande» sostituisce la madre, occupandosi dei fratelli più piccoli, dei loro giochi o dei loro minimi lavori.
Tutta la vita degli africani e dei medici europei sta rinchiusa in una frase del Pater Noster, ricordata da Matteo: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Questo pane, che secondo Gesù dobbiamo richiedere a Dio, è in primo luogo quello necessario alla nostra esistenza: il pane del bisogno e del sostentamento. Dobbiamo richiedere soltanto il pane che ci è indispensabile: nient´altro; il «pane della nostra ristrettezza», come dice la versione siriaca del Padre nostro. I Vangeli ricordano di continuo che l´uomo è una creatura effimera, fragile, passeggera, il quale dipende dalle cose che lo circondano e dal paesaggio che Dio gli crea intorno. L´uomo manca di tutto. Come affermano le Beatitudini, egli è «afflitto», «ha fame e sete di giustizia», «è affaticato e aggravato». Persino le sue qualità - «povero di spirito», «mite», «puro di cuore» - sono profondissime mancanze, assenze, privazioni e negazioni di sé, le quali, diceva Platone nel Simposio, costituiscono il suo dono supremo. Il Padre nostro ci ricorda che egli manca di pane. Se prega, Dio scende e gli dà il pane: la prima grazia della sua esistenza.
Secondo il Vangelo di Matteo, Dio gli dà oggi questo pane: giorno per giorno; non domani, non ogni giorno, non sino alla fine della vita. La preghiera di Matteo è istantanea e invoca una grazia istantanea: domani invocheremo un altro pane con un´altra preghiera. Così, nell´Esodo, quando Jahve fa scendere la manna dal cielo, gli Ebrei devono raccoglierla «giorno per giorno»: nessuno può conservarla fino al giorno successivo, perché altrimenti genera vermi e imputridisce. Più tardi, sempre il Vangelo di Matteo ammonisce: «Non affannatevi per il domani», perché il domani avrà cura e si preoccuperà di sé stesso: «a ciascun giorno basta la sua pena». Così, all´inizio del secondo secolo, un rabbino disse: «Colui che ha da mangiare oggi e dice: "Cosa mangerò domani?" è un uomo di poca fede».
Queste frasi ebraiche e cristiane rivelano il respiro della rivelazione cristiana. La nostra vita è fatta di assoluto presente: attimo effimero dopo attimo effimero, momento dopo momento, istante dopo istante, ora dopo ora, punto dopo punto, ognuno sufficiente a sé stesso e benedetto da Dio. Viviamo nell´ispirazione della grazia che Dio infonde, goccia dopo goccia, nel cuore di ognuno di noi. Come dice un padre della Chiesa, «l´oggi designa l´ora, perché esistiamo oggi, non domani; anche quando giungiamo al giorno successivo, stiamo nell´oggi». A prima vista, non avvertiamo nel mondo cristiano nessuna durata, né intravediamo un domani o un futuro: non c´è un progetto, non c´è un piano né un programma, e nessuna linea che ci conduca in qualche luogo anticipato e previsto con il pensiero. Il Vangelo di Luca corregge Matteo. «Dacci il pane di cui abbiamo bisogno per ogni giorno: cioè sempre. «Il pane per domani» così Gesù suggerisce di invocare il Padre «daccelo già oggi». In ogni istante della sua esistenza, il cristiano attende il pane del tempo della salvezza, della fine degli anni, del Regno che deve venire. Forse il Regno è già qui, senza che noi lo sappiamo. Forse verrà prestissimo, forse in un futuro che non possiamo né anticipare né prevedere: in qualsiasi caso, malgrado ogni rinvio e procrastinazione, esso scenderà luminosamente o segretamente tra noi. Ma l´attesa non è completa. Il nostro oggi non è mai pieno. Se Dio ci dà, oggi, il «pane della nostra ristrettezza», esso è un anticipo. Il pane assoluto lo avremo soltanto alla fine dei tempi, nel Regno dei Cieli; e perciò, quando mangiamo oggi ciò che ci è necessario, dobbiamo ricordare (perché ricordiamo anche il futuro) questa rivelazione piena e definitiva. Così, senza dubbio, in Uganda, in Tanzania, in Angola, in Etiopia pensano i medici e gli infermieri italiani, e così pensano i medici e gli infermieri africani che, giorno dopo giorno, consumano la vita insieme a loro.