Morya Longo, Giovanni Vegezzi, Il Sole-24 Ore 4/4/2010;, 4 aprile 2010
«IL RATING SI CONFERMA LA BUSSOLA DEI MERCATI»
«Ci sono sempre più società europee che chiedono di avere un rating. Anche in Italia abbiamo molte richieste. Il motivo è che sempre più aziende si rivolgono al mercato obbligazionario per raccogliere fondi». Sono passati ormai tre anni dalle prime avvisaglie della crisi finanziaria, nel maggio-giugno del 2007. Ma le agenzie di rating, prese di mira per aver sbagliato le previsioni sui mutui Usa, non hanno perso il loro ruolo sul mercato obbligazionario. La loro credibilità è stata incrinata, certo. Ma, forse per mancanza di alternative o per pigrizia degli investitori, il rating è ancora oggi un faro sul mercato. Maria Pierdicchi, numero uno di Standard & Poor’s Italia da 6 anni, ne è convinta: «I rating rappresentano ancora un punto di riferimento per gli investitori. E le imprese continuano a chiederli, anche in Italia».
Non crede che questo possa oggi creare problemi simili a quelli del 2007? Allora tanti investitori comprarono titoli legati ai mutui Usa fidandosi dei rating, mentre oggi un declassamento della Grecia potrebbe precludere l’accesso dei suoi bond alla Bce. Ancora una volta è il rating a dettare legge.
Se il mercato continua a dare un peso ai rating è perché li considera uno strumento utile. Credo però che oggi, rispetto agli anni precedenti la crisi finanziaria, gli investitori siano più consapevoli che il rating valuta solo il rischio di credito di un’obbligazione e che si basa sull’analisi fondamentale. Per questo motivo gli investitori utilizzano più strumenti per analizzare le varie tipologie di rischio, tra cui i Cds. Noi, dal canto nostro, abbiamo cercato di trarre insegnamento dalla crisi per rispondere meglio alle esigenze degli investitori.
E quali sarebbero?
Generalmente chiedono maggiore trasparenza, stabilità del rating e comparabilità delle valutazioni tra diverse tipologie di titoli, di emittenti e di paesi. I rating devono parlare ovunque nel mondo un linguaggio comune e comprensibile.
In verità gli investitori chiedono soprattutto affidabilità. Secondo Prometeia il 60% delle cartolarizzazioni valutate «Tripla A» prima della crisi ora ha un rating inferiore alla «B». Non è questo il vero problema?
Sinceramente i dati annuali recentemente pubblicati da S&P sulle performance dei rating dimostrano il contrario. Solo lo 0,32% delle entità con rating investment grade (
quindi ad alta affidabilità, ndr) è andato in default nel 2009 rispetto al 9,23% delle società con rating speculativo. Inoltre l’86% delle società finite in insolvenza nel 2009 aveva avuto, in origine, un rating speculativo (BB- o inferiore). La stessa cosa vale per la finanza struttura europea: tra la metà del 2007 e la fine del 2009 solo lo 0,39% dei bond cartolarizzati si è rivelato insolvente.
I rating hanno ancora troppo peso, come dimostra il caso greco. Sarebbe giusto che gli Stati europei venissero valutati da un’agenzia nuova oppure dalla Bce?
Siamo sempre favorevoli all’ingresso di nuove società. Non bisogna però dimenticare che ogni modello di business ha i suoi potenziali conflitti d’interesse: anche un’entità pubblica deputata a valutare il rischio degli Stati avrebbe i suoi conflitti d’interesse. L’importante è saperli gestire. E la regolamentazione serve a questo.
A suo avviso le riforme allo studio stanno andando nella direzione giusta o si rischia un eccesso di regole, con contrasti tra i vari Paesi?
La direzione è quella giusta, ma il rischio che si creino difformità tra le regolamentazioni attuate dai vari Paesi c’è. E questo va evitato. Per esempio ci sono alcuni aspetti dell’operatività delle agenzie di rating su cui la normativa approvata in Europa nel 2009 contrasta con le regole americane, giapponesi e australiane.
Cioè?
La regolamentazione europea prevede per esempio sia la rotazione degli analisti sia quella dei comitati di rating, ovvero degli organi collegiali che decidono a maggioranza i rating, mentre quella americana impone solo la rotazione degli analisti. La normativa europea prevede 12 ore di preavviso all’emittente prima della pubblicazione di un rating, mentre le altre regolamentazioni richiedono che il voto venga pubblicato immediatamente. Le varie Nazioni prevedono poi criteri differenti di riconoscimento dei rating prodotti al di fuori della propria giurisdizione. Se ogni Stato ha normative diverse, i confronti diventano impossibili e diventa difficile distribuire i rating in tutto il mondo. E questo non sarebbe un bene per il mercato. Morya Longo - « FRAGILE E SCHEMATICO. STRUMENTO PER PIGRI» - «Vuole sapere perché i rating hanno ancora così tanto successo? Perché molti gestori di fondi, più che altro per pigrizia, non si prendono la briga di visitare le società, di parlare con i manager. Insomma: preferiscono avere il report o il rating pronto, piuttosto che perdere tempo a farsi un’idea propria. Il problema è che se tutti fanno così solo per fare meno fatica, le crisi saranno sempre inevitabili». Pietro Giuliani, presidente di Azimut e vicepresidente di Assogestioni, è categorico: i rating continuano a dettare legge sui mercati perché gli investitori sono troppo spesso pigri e si accontentano della "pappa pronta". «Il rating è utile per le grosse realtà, per esempio per le grandi aziende, dove il gestore o l’analista di un fondo non può avere accesso al management. Ma per le realtà medie, come per gli Stati di medie dimensioni, è molto meglio prendere la valigia e andare a vedere con i propri occhi la realtà piuttosto che fidarsi del giudizio di altri».
un fiume in piena Giuliani. In questa intervista al Sole- 24 Ore dice tutto quello che pensa. Soprattutto sui rating. «La verità è che nelle società ci sono troppi livelli di persone che vigilano sulla formalità, senza che il controllo sia sostanziale. Penso proprio ai rating. Io non ci ho mai creduto non li ho mai fatti fare. Mi è sempre sembrato che ci fosse un’enfasi su una trasparenza che poi non era effettiva e nei mesi passati ne abbiamo avuto la riprova. La vera alternativa ai rating sono i maggiori controlli, ma controlli autentici ». «In questo sia le società di rating sia le Authority devono avere un approccio diverso – continua il presidente di Azimut ”. I regolatori non dovrebbe porre tutta questa attenzione sulle procedure, ma dovrebbero mandare ancora di più gli ispettori in giro a vedere le società. Poi bisogna garantire davvero che a chi ha commesso errori sia impedito di fare ulteriori danni». Insomma: più sostanza, meno formalità. Per investire e per vigilare, sembra dire Giuliani, bisogna sporcarsi le scarpe, andare in giro. Osservare con i propri occhi.
Per Giuliani questa filosofia dovrebbe riguardare anche altri aspetti della vita delle società. Per esempio la governance, cioè il governo delle aziende, che troppo spesso è fatta di adempimenti formali ma non sostanziali. «Posso dire di essere sempre stato contrario agli amministratori indipendenti – afferma per fare un esempio ”. Gli amministratori sono amministratori e basta, e come tali devono lavorare bene. Cosa vuol dire indipendenti? Che gli altri non indipendenti sono stupidi o in mala fede?» Quanto alle nuove sfide dei gestori, il presidente di Azimut delinea una strada in salita fatta di tassi bassi e di scarsa consapevolezza del cliente. «Il problema attuale non è solo la crisi, non è l’avversione al rischio, non sono le bolle e bollicine: il mio problema sono i tassi bassi – racconta Giuliani ”. La gente in Italia, come in molti altri paesi, ha scarsa cultura finanziaria. Qui da noi questo si traduce principalmente in due tipi di investimento: il conto corrente e il mattone. Per questo hanno avuto tanto successo i conti deposito, perché sono molto semplici da capire ». «Il problema – continua il gestore – è che di fronte a tutto quello che è successo ci vuole un cambiamento di mentalità: se le persone vogliono dare i loro soldi alle banche o metterli in immobili, chi finanza le aziende? Bisogna capire che finanziare le aziende, con i nostri risparmi, crea posti di lavoro e migliora la nostra economia. Inoltre sono convinto di una cosa: se un giovane vuol essere certo che i propri soldi arrivino fino alla pensione deve investire in azioni. In periodi di crisi l’investimento in azioni tutela di più. Pensiamo ai momenti più bui che abbiamo passato, quando si pensava che anche le banche potessero fallire.
In quel momento fare un giusto investimento in azioni garantiva in ogni caso qualcosa di tangibile, la quota di un’azienda. Passata la crisi le aziende rimangono perché rimane la necessità dei beni che producono».
Intanto però nel far fronte alla congiuntura, i gestori come Azimut, devono trovare la strategia giusta per allocare i fondi. «I soldi li puoi fare con quello che è scarso nel mondo: in primo luogo le materie primee ci stiamo lavorando. Stiamo infatti per lanciare un fondo innovativo che investe in materie prime per il quale anche Goldman Sachs ha mostrato interesse. E poi bisogna andare nei mercati emergenti. Lì c’è quella situazione positiva e quella voglia di fare che c’era qui da noi nel dopoguerra». Giovanni Vegezzi