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 2010  aprile 04 Domenica calendario

LA SFIDUCIA NELL’EURO AIUTA LA RIPRESA

La vicenda greca ha avuto almeno il merito di restituire al mercato quei poteri di sanzione che si pensavano perduti con l’” ammucchiata”dell’euro. Ai tempi della creazione della moneta unica una delle critiche stava nel fatto che l’euro avrebbe funzionato anche troppo bene: al riparo di una grande moneta i paesi devianti (allora si pensava soprattutto all’Italia) non sarebbero stati puniti con crisi valutarie o con pesanti aumenti dei tassi; gli sconfinamenti del bilancio o della bilancia sarebbero stati spazzati sotto il folto tappeto della moneta unica. Nel caso greco, invece, si è scoperto che il mercato conserva un potere sanzionatorio: anche se la crisi valutaria non c’è stata né ci poteva essere (a parte le amabili sciocchezze di coloro che pensavano che la devianza greca avrebbe portato alla fine dell’avventura dell’euro) c’è stata una pesante divaricazione fra i tassi pagati sui titoli greci e su quelli tedeschi. Una divaricazione che ha costretto i potenti della terra (beh,dell’Eurozona)a correre ai ripari, stabilendo così anche un utile precedente per affrontare crisi di questo tipo. Ma l’euro non si è indebolito egualmente?
Sì, ma questo sottoprodotto della crisi greca non è stato né grave né inutile. Si è trattato di una correzione limitata: basti pensare che l’anno scorso l’euro era sceso fino a 1,25 contro dollaro, senza che ci fosse nessun problema ellenico e solo in dipendenza di una crisi economica che favoriva il dollaro come moneta- rifugio. E non si è trattato di una correzione inutile; anzi, in una fase di questa faticosa ripresa che vede la congiuntura americana più vivace di quella europea, il vantaggio dato agli esportatori europei da questo limitato deprezzamento è in linea con i differenziali di crescita e gli auspici dei produttori.
A che punto è il cambio dell’euro? Per giudicarne l’adeguatezza o meno ci sono due vie: o il confronto con i cosidetti "cambi di equilibrio", da quelli rozzi basati sul ”Big Mac’ a quelli basati su un confronto più allargato delle parità di potere d’acquisto, o a quelli più sofisticati basati su modelli che tengono conto di diverse variabili finanziarie e reali. Ma nessuno di questi ”cambi d’equilibrio’ è veramente soddisfacente, e, in presenza di tante incertezze, la soluzione meno controversa è quella di confrontare il livello attuale con una media di lungo periodo. quello che si è fatto nel grafico, dove il cambio reale dell’euro è messo a confronto (sia nella versione bilaterale col dollaro, sia in quella multilaterale che copre circa 50 paesi partner) con la media di tre lustri. Il livello attuale è vicino a questa media e anzi, avrebbe ancora spazio per indebolirsi se si vuole adagiare sulla media stessa.
Così come i cambi si stanno normalizzando, anche per i tassi a lunga sta succedendo lo stesso. Quelli a breve rimangono schiacciati sui minimi storici (eccetto in pochi paesi come l’Australia, dove sono stati già ”normalizza-ti’, cioè gradualmente innalzati verso i livelli anti-crisi), ma quelli a lunga – in particolare quelli sui titoli pubblici – erano finora anormalmente bassi. Dietro a questa anomalia vi era la bassa inflazione, l’economia debole e l’avversione al rischio che favoriva i titoli di stato. Ora, l’inflazione continua a essere bassa ma cresce la preoccupazione (infondata) che salirà a causa della passata e massiccia creazione di moneta; l’economia è meno debole e l’avversione al rischio si riduce. I tassi sui titoli lunghi stanno tornando quindi verso livelli normali ed è questa una tendenza che non dovrebbe preoccupare. Naturalmente, si determina un "lucro cessante" per i bilanci pubblici, che finora avevano goduto di una riduzione nella spesa per interessi. Ma questo facile vantaggio doveva cessare e la – strategia di uscita’ da deficit e debiti acquista maggiore urgenza.
Indicatori reali
Nel mondo la ripresa va. Lo specchio del commercio globale riflette il rilancio della domanda, amplificandola nell’interscambio di beni. I quali,prima di terminare all’acquirente finale, vengono prodotti con il contributo diretto (lavorazioni) o indiretto (componenti) di molti paesi. Poiché il processo di internazionalizzazione delle catene produttive prosegue, la variazione dell’export mondiale è un multiplo di quella della domanda di consumi e investimenti e della produzione.
La crisi ha temporaneamente messo sabbia negli ingranaggi di questa ricerca della maggiore efficienza (che vuol dire sposare al meglio qualità e costi), nei casi in cui per un maggior controllo dei costi e impiegare impianti e lavoratori le imprese hanno riportato all’interno una parte delle fasi prima decentrate all’esterno. Ora che il quadro faticosamente si normalizza, la tendenza generale torna verso il decentramento e ciò accentua un rimbalzo degli scambi superiore a quello generale dell’attività produttiva e della domanda. Ed ecco che il commercio mondiale in volume, dopo essere crollato a cavallo tra 2008 e 2009 di un quinto dal picco dell’aprile 2008, ha messo a segno un recupero di oltre il 15% nell’arco dei sette mesi da maggio a dicembre e il 2010 ha ereditato un trascinamento positivo superiore al 10 per cento.
Questa è l’evidenza più solida che l’economia mondiale si è rimessa in marcia. Altre sono meno tangibili, non si traducono subito in ordini, fatturato e, con il ritardo consueto (che questa volta sarà più lungo del solito nelle economie europee), posti di lavoro, ma non per questo vanno trascurate. La prima è quella dell’indice anticipatore Ocse, che ormai da molti mesi ha "previsto" la ripresa in arrivo e ora punta a un’ulteriore accelerazione nel corso del 2010. La seconda è quella della fiducia, quel cambiamento di clima mentale dal quale in economia, attraverso il gioco delle aspettative che si auto-realizzano, si trasforma in mutamento concreto dei comportamenti di spesa e quindi dello stato di salute ”fisica” del sistema. E in Eurolandia, nonostante le vicissitudini greche che non hanno fatto onore a nessuno degli attori in commedia, questa fiducia è oggi al top dal maggio 2008. Era un periodo già non roseo, si dirà: certo ma oggi siamo ancora immersi nei difficili lasciti della crisi. A guidare il recupero di fiducia sono le imprese manifatturiere, quelle cioè che negli ultimi due anni hanno visto peggiorare più vistosamente le prospettive.
Le informazioni contenute negli indici Pmi (dato complessivo, livello produzione, ordini e perfino occupazione) confermano che è il manifatturiero il comparto che registra i tassi di incremento maggiori, anche se da livelli bassi: tra un ottavo e un quarto sotto i massimi pre-recessione (a seconda del Paese). Mentre il terziario (che risente maggiormente dei vincoli di bilancio delle famiglie) fatica di più. Che le economie emergenti fossero le più dinamiche le «Lancette » lo hanno titolato già qualche tempo fa. Così come hanno scritto che gli Usa sarebbero usciti prima e con più slancio dalla recessione, grazie alle politiche più aggressive sia dei policy-maker sia delle imprese, che ora hanno margini ampi per slanciarsi in nuovi progetti e abbisognano di lavoratori.Nell’area euro, la Germaniaè parsa più lesta nel cogliere il rilancio della domanda globale, l’Italia è invece attardata, anche se comincia ora, sia nell’export sia nella produzione, a prendere un po’ di abbrivio.
Inflazione
Il rialzo delle materie prime, con o senza lo zampino della finanza, tallona le notizie sulle condizioni economiche: salgono se il barometro punta al bello, calano se fa temere di nuovo il brutto. Ora stanno salendo e questo rialzo (con l’Opec che vigila a evitare strappi nel petrolio) è esso stesso una buona notizia congiunturale. Tanto più che l’inflazione di fondo, di qui e di là dell’Atlantico, continua a raffreddarsi.