Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  aprile 04 Domenica calendario

LA MIA VITA DA ARLECCHINO GIOIOSO

Un soggiorno milanese in zona Certosa, su due pareti bozzetti, disegni a matita di quinte e costumi, un ideogramma giapponese gigante, la riproduzione di un Kandinskij. La terza parete è occupata dalla libreria, sull’ultimo ripiano decine di raccoglitori, foto e ritagli di giornale. La casa è molto silenziosa. L’attore, al centro della scena, siede a un tavolo rotondo nella posa composta di uno scolaro timido.
Ma Ferruccio Soleri non ama le sovrapposizioni. Qualsiasi tentativo di intrecciare vita e teatro è destinato a infrangersi sulla scorza dura di questo fiorentino insofferente agli orpelli.
Ottant’anni e oltre duemila repliche, il funambolo che con il teatro ha barattato almeno tre vite – da fisico-matematico, ballerino, calciatore – e ha stabilito il record mondiale «per la più lunga interpretazione dello stesso ruolo» nel goldoniano Arlecchino servitore di due padroni, continua a riempire le sale con quello che Giorgio Strehler definì «un inno gioioso di liberazione». Mulinello di scintille impazzite da una fucina indemoniata, dove trionfa il doppio e si salva il matto che sta a metà, tra due mondi, due alfabeti, due padroni.
Quando si spengono le candele sul proscenio, però, il costume svapora, la voce si fa roca. Non confondere l’uomo con il personaggio, mai perdersi, «non sei, devi solo fingere e far credere». Poca mistica, molta fatica e una zavorra dentro che tiene legati alle vecchie assi consumate. Pulcinella, Pantalone e Brighella sugli scaffali, tra modellini di velieri a velocità costante. C’è anche lui, una fascia di cuoio che graffiava la pelle del viso, «ora non più». Arlecchino è solo una maschera. «Siamo ebanisti – dice’ abbiamo un legno da lavorare. Va bene Stanislavskij, l’immedesimazione, però dopo viene Brecht, lo straniamento, la coscienza della finzione per poter comunicare. C’è il testo, c’è la regia, noi interpretiamo. un mestiere che solo in rari momenti diventa arte».
La prima volta «fu terribile». Era il 28 febbraio 1960, la compagnia del Piccolo Teatro di Milano in tournée negli Stati Uniti, Soleri sostituto del protagonista Marcello Moretti. New York City Center, sipario chiuso, attori in posizione, Arlecchino con il braccio sollevato ad arco. «Annunciarono l’assenza di Moretti ai microfoni e in sala ci fu un boato, mi assalì lo sconforto. Ricordo la voce di Paolo Grassi dalle quinte, Solevi tivi su quel bvaccio – imita la r strascicata del cofondatore e storico impresario del Piccolo ”. Cominciai. Il primo atto in trance, non sentivo niente; al secondo capii che lo spettacolo andava, al terzo il pubblico mi aveva detto sì». Ed è sempre un mistero, quel sì. Dialogo impossibile, l’artificio dell’attore che riproduce la struttura elementare, io-tu.
Con Strehler era uno sforzo continuo per tenere viva la magia. «Nel suo rapporto con il testo non c’era niente di oscuro o intellettuale, tutto era logico. Ci guidava nell’analisi, ascoltava le ipotesi degli attori sempre convinti di saper leggere le intenzioni segrete dell’autore, poi gli bastava un collegamento tra due scene per risalire alle ragioni di un comportamento, smontare le nostre contraddizioni e rendere evidente la verità del personaggio. Per questo i suoi spettacoli sono così limpidi. Non era mai contento, cercava la perfezione, senza di lui non sarei quello che sono».
Aveva cominciato studente universitario nella Firenze anni Cinquanta «in compagnia con Paolo Poli, Renzo Montagnani, Ilaria Occhini, Gianna Giachetti, si recitava per divertimento, ci dirigeva Beppe Menegatti, uno dei primi spettacoli fu il Comus di John Milton, facevo Comus». Poi il concorso all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico: «Seppi dell’ammissione lo stesso giorno in cui mi presero nel corpo di ballo del Maggio musicale fiorentino, al termine dell’audizione dissi che sarei andato a Roma e cercarono di scoraggiarmi, non avevo voce, ero troppo piccolo per fare l’attore».
In Accademia fu Orazio Costa, il regista allievo di Copeau che aveva messo il corpo al centro della ricerca teatrale, a riconoscere il lampo. «Mi fa: Soleri, tu sei Arlecchino. Ma dottore come faccio, io sono fiorentino. Mi misi a studiare. Ruota, verticale e salto mortale avevo imparato a farli da bambino spiando dal tendone gli allenamenti pomeridiani degli acrobati del circo, mettevo male le mani però stavo in equilibrio. Le pose fissate su stampe e incisioni d’epoca non bastavano per ricostruire i movimenti degli attori della Commedia dell’Arte, così pensai di leggere le corrispondenze private con i commenti alle esibizioni delle compagnie italiane che giravano l’Europa nel Cinque-Seicento. Per l’accento veneto invece ci pensarono Gastone Moschin e Lucia Catullo».
Quando lo vide, Moretti ne parlò a Strehler, che nel suo Servitore andava intrecciando metateatro e tradizione popolare per recuperare quella Commedia dell’Arte rinnegata nel Settecento proprio da Goldoni. Per il giovane attore alle prese con Pirandello, Brecht, Lorca e Shakespeare non fu facile entrare nella maschera. «Perché nasconde il viso – arriccia la fronte e contrae i muscoli facciali in un passaggio impercettibile tra euforia e disperazione – ti costringe a esprimere i sentimenti attraverso una colorazione maggiore del tono della voce, una gestualità caricata e precisa, il controllo fisico». E può annullarti, gli antichi greci avevano una parola unica che racchiudeva volto e maschera, prósopon, persona. Ha curato regie, Soleri, scritto commedie, insegnato, visto il mondo, sempre mantenendo una distanza da quel compagno onnipresente.
Eppure. «Ero in Francia quando nacque la mia prima figlia». «Il giorno dei funerali di mia madre non pensai di chiedere la sospensione dello spettacolo, andai in scena».
La sera, un batuffolo di cotone imbevuto d’alcol sul viso di cuoio stanco.
Dal soggiorno le foto proseguono in camera da letto e nello studio, all’indietro: in costume, al trucco, in posa, in prova, con gli amici Antonio Gades, Rudolf Nureyev, Marcel Marceau. L’espressione vivace dei tre nipotini, i due matrimoni, l’infanzia. Stretto tra i romanzi, un piccolo libro con la copertina blu, Tre luci nella notte. «L’ha scritto mio padre». Era un uomo austero, Ernesto Soleri, la barba candida, il cane pastore al fianco, gli occhi spalancati e vuoti. Negli scatti in bianco e nero fa pensare al veggente Tiresia reincarnato in un ottocentesco nobile piemontese di pensiero asciutto e poche parole o al Mr Rochester di Jane Eyre dopo l’incendio. Nato nel 1883 a Fossano, aveva perso la vista a diciott’anni e non amava parlare di una vita «da hippie ante litteram», morì prima che il più piccolo dei tre figli salisse sul palco. «Destino» ripete Ferruccio Soleri ripensando a tutti i bivi tessuti dagli dei. Dice di non aver mai davvero scelto, lui che da attore grande riconosce e svela la trama invisibile sotto la vita, in fondo teatro deriva dal greco «vedere». Guarda la foto, sorride, «qui è con mia madre, era un po’ grassottella».
Maria Serena Natali