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 2010  aprile 04 Domenica calendario

CHE COSA CAMBIA IN MEDIOBANCA

Che cosa cambia in Mediobanca con la nomina a presidente del 57enne direttore generale Renato Pagliaro? Potremmo dire che la presidenza breve di Cesare Geronzi – meno della sua sono durate solo quelle di Innocenzo Monti e Antonio Maccanico’ ha completato il ringiovanimento dei vertici, avviato dopo le dimissioni di Vincenzo Maranghi con la nomina di Alberto Nagel, oggi 45enne, ad amministratore delegato. Ma l’anagrafe non ha mai avuto gran peso nella banca milanese. Basti pensare che il suo demiurgo, Enrico Cuccia, di anni ne aveva 39 quando il grande Raffaele Mattioli lo fece direttore generale. Più interessante è notare come la nomina di Pagliaro rafforzi il ruolo del management, la cui autonomia venne negoziata dallo stesso Maranghi mentre rifiutava ogni premio alla carriera. L’autonomia è la condizione minima per poter gestire degnamente una banca che, altrimenti, può rischiare richieste improprie da parte dei soci, finanziati con prestiti e partecipazioni. Ma la Mediobanca dei manager maranghiani non è più la Mediobanca di Maranghi.
Negli anni Novanta, Mediobanca influenzava, sostenendoli o addirittura suggerendoli, i vertici di Comit, Credit, Generali, Fiat, Montedison, Pirelli, Orlando, Falck. Quella Mediobanca comincia a venir meno nel 1998 con lo scioglimento del patto Fiat e la scalata di Unicredito alla Comit, fallita ma ricca di conseguenze. E finisce con la liquidazione di Montedison, il declino degli Orlando e dei Falck, con la Pirelli che rimpicciolisce. Oggi a Mediobanca mancherebbero gli interlocutori per esercitare il potere di allora. Un’altra Italia è cresciuta, spinta dalle privatizzazioni e dalla maturazione della media impresa.
Di quel tempo, per alcuni glorioso, per altri soffocante, sono rimasti uno stile e un’expertise di prim’ordine e un gran patrimonio nel quale spicca il 13,2 per cento delle Generali. Ma questa partecipazione non garantisce più il potere che garantiva quando si stagliava come un baobab nella prateria di Trieste. Altri alberi sono spuntati: non così alti, ma numerosi e in grado di crescere, mentre Mediobanca non può spingersi oltre il 15 per cento. Non sarà la fine del mondo. Del resto, gli anni del potere assoluto a Trieste sono stati pochi. Prima, Mediobanca condivideva il governo della compagnia con Lazard, sotto la fiera sorveglianza di presidenti delle Generali come Cesare Merzagora, membro dello stesso establishment di Cuccia, ma senza sudditanze. Una mezzadria con i nuovi soci eccellenti di Trieste (Caltagirone, De Agostini, Del Vecchio, Fondazione Crt e Ferak) è nell’ordine delle cose e non solo in quello del listone per l’assemblea. E la base saranno gli affari, nella dialettica con il management a salvaguardia della compagnia e dei suoi obblighi verso gli assicurati. Del resto, diversamente dai grandi gruppi di un tempo, i nuovi sono padroni in casa loro. La vecchia Mediobanca non può dunque risorgere in Generali perché la domanda di tutela si va restringendo sempre più.
Massimo Mucchetti