Giovanni Stringa, Corriere della Sera 04/04/2010, 4 aprile 2010
FUMAGALLI: AVEVAMO UN GIOIELLO ADESSO E’ UNA COLONIA INGLESE
Ettore Fumagalli Piazza Affari la conosce molto bene. Ci ha lavorato una vita, fino a diventare presidente del Comitato direttivo degli agenti di cambio del listino dal 1983 al 1988, e presidente della Federazione delle Borse della Cee dal 1988 al 1992. Nato nel 1937, è uno dei nomi storici di Piazza Affari: prima della privatizzazione e dell’arrivo degli inglesi nel 2007. E prima delle accuse lanciate ieri da Stefano Micossi («il management di Borsa Italiana – ha detto il direttore generale di Assonime sul Corriere – si è venduto la Borsa con l’acquiescenza degli azionisti bancari»).
Parole condivisibili, quelle di Micossi?
«Diventare un pezzettino di una istituzione straniera non è una bella cosa. E quello che Borsa Italiana è oggi è semplice: una colonia, nella più tipica tradizione inglese. E ci hanno colonizzato per colpa nostra, non per bravura loro. Io e Attilio Ventura, il mio successore, eravamo assolutamente contrari all’accordo con Londra».
Le fusioni tra Borse, però, sono state per anni all’ordine del giorno: una tendenza dei grandi listini nel mondo. Aveva senso restare piccoli e soli tra giganti?
«E ha senso, chiedo io, una fusione tra un nano e un gigante? E’ chiaro, chiarissimo, che in un accordo come questo il nano non potrà mai comandare. Non è neanche ipotizzabile, nemmeno nei sogni, che un italiano possa salire al vertice della Borsa a due tra Milano e Londra. La verità è che Piazza Affari è stata messa nelle mani degli ultimi a cui doveva essere consegnata».
Chi viene prima di Londra nella sua classifica?
«Parigi. Perché un accordo con Euronext (l’alleanza tra Parigi, New York e altri listini, ndr) avrebbe permesso di conservare l’autonomia di Milano, lavorando in una rete di diverse Borse: c’è una differenza notevole tra essere associati e, sostanzialmente, sparire. Noi italiani abbiamo scelto la seconda strada, sacrificando una costruzione giuridica che aveva radici fin nel 1913. E rinunciando a un possibile alleato, Parigi, storicamente molto più vicino a noi di Londra».
Ma qualcuno deve pur averci guadagnato, anche in Italia.
«Certo, per qualcuno è stato un fantastico affare. Sul versante italiano si è guardato al tornaconto monetario, vale a dire il guadagno in conto capitale degli azionisti, e non all’interesse di sistema, nel lungo periodo».
E’ una bocciatura senza appello al management delle nozze?
«Non voglio togliere nulla a Massimo Capuano (ex amministratore delegato di Borsa Italiana, ndr) e al suo successore di questi giorni Raffaele Jerusalmi: entrambi due persone in gamba e di spicco. Ma io con gli inglesi ho lavorato per molto tempo, li conosco bene: non dicono mai un «sì» senza farlo seguire da un «ma».
Eppure, per esempio, Londra vuole sviluppare il nostro post-trading, il Monte Titoli e la Cassa di compensazione di garanzia in direzione più europea.
«Resta il fatto che, se oggi va in Piazza Affari, a Palazzo Mezzanotte, vedrà con i suoi occhi che quello che un tempo è stata Borsa Italiana ora non c’è più».
Giovanni Stringa