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 2010  aprile 04 Domenica calendario

BANKITALIA IN CAMPO PER LA BORSA

La partita delle Borse fra Londra e Milano, nata dalla fusione del 2007, resta affidata ai protagonisti del mercato. Ma ha anche un arbitro che non intende far dimenticare il proprio ruolo: la Banca d’Italia segue da vicino l’evoluzione della società che controlla le infrastrutture finanziarie del Paese. E pochi giorni dopo il cambio della guardia alla guida operativa di Borsa Italiana, non manca di farlo sapere.
Da Via Nazionale, fonti autorevoli ieri hanno sottolineato che l’istituto sta seguendo «con grande attenzione» gli sviluppi e sta «esercitando moral suasion». Lo sforzo di incoraggiamento, si nota a Palazzo Koch, ha soprattutto un obiettivo: la tutela delle infrastrutture finanziarie italiane «a presidio della stabilità».
Il richiamo alla stabilità non ha mai niente di casuale, nel linguaggio dei banchieri centrali. Via Nazionale ha anche un mandato di tutela della stabilità finanziaria, una competenza che assume un rilievo ancora maggiore dopo le crisi internazionali degli ultimi anni. E in Italia il funzionamento dei mercati si deve in gran parte al grado di efficienza del gruppo Borsa Italiana, controllato dalla Borsa di Londra. Con la presa di controllo sulla società di Pazza Affari, il London Stock Exchange (Lse) due anni fa non ha acquisito infatti solo i listini azionari. Nel perimetro rientrano anche Mts, la migliore piattaforma europea per i titoli di Stato, e le strutture nelle quali le transazioni finanziarie vengono eseguite e poi chiuse. Per Banca d’Italia, quanto a questo, il discrimine sembra chiaro: la bandiera britannica o italiana sul controllo di questa o quella società è indifferente. Ma la garanzia di efficienza e stabilità dell’intero sistema dei pagamenti nel Paese – un bene pubblico, non una proprietà privata – resta imprescindibile.
Non che esistano motivi di allarme immediato. Ma la sequenza dei fatti deve aver destato l’attenzione del regolatore italiano: per Mts, la società a suo tempo costituita dal Tesoro per garantire liquidità sui titoli di Stato, Lse ha chiamato un britannico (Jack Jeffery). Inoltre, l’integrazione industriale fra i gruppi ha sacrificato alcune delle migliori strutture italiane, come Montetitoli. Di recente poi l’ultimo segnale: quando giorni fa Massimo Capuano ha lasciato la guida operativa di Borsa Italiana a Raffaele Jerusalmi, quest’ultimo non è stato cooptato nel consiglio della Lse (Capuano vi partecipava come vice-amministratore delegato di gruppo).
A Banca d’Italia non è sfuggito il paradosso. Con banche italiane azioniste nella società della City per un 18% complessivo, la prima quota più dopo il 20% di Borse Dubai, nel board non c’è più un solo connazionale. probabilmente per questo che fonti autorevoli di Via Nazionale ora esprimono l’aspettativa che le banche possano gestire la loro partecipazione meglio di quanto avvenuto in passato. L’invito a farlo in modo congiunto è appena velato. Bankitalia ne avrebbe parlato con alcune delle principali banche (sia Intesa Sanpaolo che Unicredit hanno più del 5% ciascuna in Lse). La presenza italiana nel gruppo della City ha già una storia, per la verità. Marco Parlangeli, direttore generale della Fondazione Mps e consigliere di Mediobanca, ricorda un episodio del 2007: all’epoca gli istituti italiani avevano un 29% cumulato in Lse e le grandi fondazioni lavorarono all’acquisto di un’ulteriore quota. I soci italiani sarebbero saliti così quasi al 50% di Lse. «Ma non si riuscì – ricorda Parlangeli – per la riluttanza degli amministratori di allora: Clara Furse a Londra e Massimo Capuano a Milano».
Federico Fubini