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 2010  aprile 04 Domenica calendario

DA NEDA ALLE SPOSE DI ALLAH: LE «ICONE» DELLE GUERRE D’OGGI

La coppia di ribelli ceceni è in posa, amorosamente armata: la diciassettenne con la pistola, guarda l’obiettivo con occhio infantile e disperato, mentre abbraccia il marito che tiene la mano sul grilletto. Qualche mese dopo lui sarà ucciso dalle forze speciali russe e lei, Dzhennet Abdullayeva, nuova vedova nera, si farà saltare in aria nell’attentato suicida alla metropolitana di Mosca del 29 marzo. E l’immagine di lei, velata e armata, diventa subito una nuova icona delle guerre contemporanee, dove quasi sempre le donne – da vittime o da carnefici – conquistano il non ambito primato di segnare nell’immaginario collettivo il ricordo di un evento spesso selvaggiamente doloroso.
E difatti vicino all’immagine della kamikaze Dzhennet c’è, a fare da contraltare una vittima, la bionda ragazza moscovita che subito dopo l’attentato sta seduta a terra in abiti contemporanei con il viso macchiato di sangue in composta sofferenza, altro volto a sorpresa, ma di tutt’altro segno, di questo conflitto. Vite agli antipodi ma accomunate al momento della tragedia, donne che diventano simboli talvolta loro malgrado di piccoli momenti epocali. Come Neda Soltan la studentessa di filosofia uccisa dai cecchini durante le proteste in piazza a Teheran nel giugno 2009: il suo volto insanguinato ha fatto il giro del mondo postato su Twitter e Facebook, mentre un video della sua morte girato con il cellulare è andato su YouTube consacrandola come «l’angelo dell’Iran».
Sacrificio di una vita spezzata e non dimenticata grazie a Internet. Ma anche prima dell’enfasi tecnologica uno scatto poteva fare la differenza. Come successe con la Madonna d’Algeria, ricordate? Quell’immagine straziante del dolore ripreso nel momento della sua più intensa epifania, quasi un triste miracolo del clic ad opera del fotografo algerino Hocine della France Press. E pensare che Oum Saad era diventata icona per errore. Il 24 settembre 1997 in un ospedale di El Harrash una donna che aveva appena saputo che tutti i suoi otto figli erano stati massacrati dai terroristi islamici a Bentalha, comincia a strapparsi i capelli e a graffiarsi per la disperazione. In un angolo c’è anche Oum Saad che piange per il fratello, la cognata e la nipote e forse un po’ anche per tutto il dolore che la circonda. In quel momento arriva Hocine che le scatta tre foto e fugge. Già la sera le immagini sono sulle tv mondiali e per un attimo lei è la madre disperata mentre il fotografo diventa famoso.
Due anni dopo un’altra madre, questa volta kosovara comporrà un nuovo quadro dell’immaginario mondiale: nel più recente esodo della storia, dal fiume biblico di umani cacciati dalle loro case si inerpicava per impervie mulattiere, si stacca alla testa della lunga fila una mamma che faticosamente sale allattando un bambino avvolto in un panno bianco. E guardando disperatamente avanti.
Vittima simmetrica, al lato opposto della scala dell’odio, ritroviamo una mamma kamikaze. Se ci pensate un minuto ritrovate il flash nel vostro ricordo, è la signora quasi sorridente con il suo fucile nella mano destra e un bambino, per fortuna ignaro, sul braccio sinistro. Reem Riyashi morirà a 22 anni in un attentato suicida a Gaza nel gennaio 2004. Si scoprirà presto che Reem aveva ormai solo quella strada da percorrere, perché il marito dubitava della sua fedeltà, e le donne traditrici nel mondo musulmano, si sa, hanno poche chance: o sono punite con la morte oppure, come seconda possibilità di «non vita», possono scegliere di farsi addestrare al martirio. Donne che da sole non valgono più niente, e che, proprio come le vedove nere di cui la diciassettenne Dzhennet è ultimo esempio, vanno verso la morte come nuove fidanzate di Allah.
Maria Luisa Agnese