Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 04/04/2010, 4 aprile 2010
TASSI, SE IL RISCHIO PASSA DAI PRIVATI AGLI STATI
Intesa Sanpaolo ha annunciato l’emissione di obbligazioni decennali a tasso fisso che rendono il 4,23%. Ordinaria amministrazione bancaria? Sembrerebbe, ma non è così. Pochi giorni prima, infatti, il Tesoro aveva collocato Btp a 10 anni a tasso fisso che rendono a scadenza il 3,96%. Una differenza di tassi così bassa – 27 centesimi di punto – rivela che per i mercati finanziari non c’è un rischio d’insolvenza molto diverso tra la Repubblica italiana e la maggiore delle banche operanti entro i confini nazionali (Unicredit è più grande, ma in virtù di una più estesa presenza all’estero).
Il fenomeno sorprende. Non dicevamo tutti, a cominciare dal ministro dell’Economia, che lo Stato era ben più solido del sistema bancario, ovunque bisognoso di nuovi capitali? Lo dicevamo. Eppure, se allarghiamo la visuale al complesso delle obbligazioni delle più importanti società italiane, riunite nel paniere monitorato da Barclays, scopriamo che queste pagano interessi addirittura a sconto rispetto ai titoli pubblici equivalenti per durata e condizioni. Non a uno sconto simbolico, come era già accaduto nel 1999 e nel biennio 2004-05, ma a uno sconto significativo, 30-40 centesimi di punto, e destinato a crescere perché le emissioni di titoli di Stato sono a loro volta destinate ad aumentare.
Il fenomeno non è soltanto italiano. La forbice tra tassi stabili o in ripresa del debito pubblico e tassi in discesa del debito delle grandi imprese si sta divaricando in tutto il mondo. Negli Usa, alla fine di marzo, il rendimento a 10 anni delle obbligazioni del Tesoro ha superato per la prima volta quello dei tassi per le operazioni tra banche, confermando la tendenza emersa sui trentennali a partire dal maggio 2009 e non più interrotta. Che cosa sta succedendo?
Dalle viscere del capitalismo finanziario viene il segnale di un nuovo abbaglio dei mercati e di una nuova beffa per i contribuenti. Non più tardi di un anno fa, la Grande Crisi veniva contrastata con ingentissime trasfusioni di pubblici denari nel sistema bancario e, poi, nell’economia reale. Il conseguente balzo della spesa pubblica era coperto attraverso il collocamento di nuovi titoli di Stato. Una parte del debito privato, insomma, veniva trasformato d’urgenza in debito pubblico allo scopo di evitare il fallimento di imprese, banche e famiglie debitrici e nel presupposto che gli Stati del Primo mondo fossero, a loro volta, debitori più affidabili, così affidabili da essere sempre considerati risk free. Tali erano la speranza riposta nei governi e la ricerca ansiosa di impieghi senza rischio che, nonostante le maggiori emissioni e la recessione dell’economia, i tassi d’interesse sul debito pubblico erano crollati ai minimi storici ovunque nel mondo, mentre il settore privato faticava a piazzare le sue obbligazioni. In questo primo scorcio del 2010, la Grande Crisi non può dirsi finita. Anche se il Prodotto interno lordo ha smesso di scendere, saremo fuori dai guai solo quando le persone riprenderanno a lavorare e guadagnare come nel 2006-2007 avendo recuperato le perdite cumulate nel frattempo. E tuttavia in queste settimane, nelle quali il ritorno allo status quo ante appare ancora remoto, le grandi imprese finanziarie e non finanziarie riescono a collocare le loro obbligazioni a condizioni improvvisamente migliori di quelle dei governi dei Paesi d’origine. In precedenza, non accadeva. Qualche volta, è vero, si era registrato uno sconto. Ma era uno sconticino e lo sconticino coincideva – questo è il punto – con i momenti d’oro dei mercati finanziari senza frontiere e dell’economia globale: il boom della new economy, il rialzo delle Borse, l’espansione del Pil. Oggi, invece, il settore privato riceve il premio con le Borse ferme e l’economia reale al palo. Tornando all’esempio iniziale, i Credit default swaps (cds, «polizze» che assicurano contro l’insolvenza del debitore) per il debito a 5 anni di Intesa Sanpaolo sono pari a 68 centesimi di punto e quelli di Unicredit a 83, mentre i cds dei Btp quotano 113 centesimi. Il paragone potrà essere imperfetto sul piano formale, ma resta il fatto che il cds di Intesa Sanpaolo è il secondo migliore tra le grandi banche europee, a 3 soli punti dalla Hsbc, mentre quello dello Stato veleggia a metà classifica, a 82 punti dal paese leader, la Germania. Ce n’è quanto basta per chiedersi se i mercati leggano bene la realtà o se non stiano prendendo un altro, clamoroso abbaglio nel fare il prezzo dei rischi. I tecnici diranno che questa sorprendente forbice tra il debito pubblico e quello delle corporation si spiega con gli arbitraggi: gli investitori escono dai titoli di Stato e dagli strumenti di liquidità a breve, dove si erano rifugiati nell’ora del pericolo, e acquistano corporate
bond pluriennali alla ricerca di rendimenti maggiori fino al punto che l’eccesso di domanda per questi strumenti finanziari ne fa cadere il rendimento. E magari i tecnici aggiungeranno che le grandi imprese multinazionali presentano profili di rischio e luoghi di approvvigionamento finanziario più diversificati geograficamente rispetto a molti Stati. Ma, alla fine, anche i tecnici non possono negare il paradosso: le banche vengono giudicate meno rischiose dello Stato, eppure un eventuale fallimento del Tesoro le trascinerebbe nel gorgo, piene come sono di titoli pubblici, mentre sarebbe assai meno probabile il contrario, visto che, in un’economia patrimonialmente ancora ricca, lo Stato alla peggio può sempre tassare per turare le falle e le banche non hanno analoga facoltà. L’attuale svolta nei tassi relativi costituisce dunque un abbaglio.
E tuttavia i mercati ci stanno ugualmente dicendo tre verità. La prima è che, con i salvataggi del 2008-2009, il rischio in eccesso nel settore privato non è stato cancellato, ma semplicemente trasferito sulle spalle degli Stati, e cioè dei contribuenti. Un’operazione, a ben guardare, non tanto diversa dalla «finanza innovativa» che credeva di annullare il rischio di fallimento del debitore trasformando i crediti delle banche in titoli finanziari diffusi tra gli investitori istituzionali. Ma trasferire non è risolvere.
La seconda verità è che la lista degli Stati certamente non a rischio non è più quella di un tempo. Il caso greco è lontano dall’essere risolto, come testimoniano le recentissime difficoltà a rifinanziare il debito pubblico di Atene nonostante la promessa di interessi più elevati. Ma in Occidente a non essere più risk free non sono soltanto i titoli pubblici della periferia dei Eurolandia. Gli stessi Usa vanno ripensati. Per non parlare del Regno Unito. La forbice dei tassi d’oltre Atlantico smentisce con la forza del mercato la tripla A che le agenzie di rating, succubi del potere di Washington e di Wall Street, continuano ad attribuire alle obbligazioni pubbliche americane, come se il balzo del debito pubblico oltre il 100% del Pil senza possibilità di rientro a breve fosse un evento privo di conseguenze.
La terza verità è quella che contiene la beffa per i contribuenti. Se come pare sarà confermato, questo singolare andamento dei tassi alimenterà di nuovo l’illusione che indebitarsi oltre i livelli sostenibili dall’economia reale sia comunque conveniente per il settore privato. E ciò avrà l’effetto di rilanciare quell’economia del debito che ha già portato il mondo occidentale al disastro. In altre parole, abbiamo usato i soldi dei contribuenti per tamponare i disastri dell’economia del debito e ridurne la portata così «bene» da rilanciare proprio quel tipo di economia. Che aveva allargato a dismisura le distanze tra i molto ricchi e il resto della popolazione.
Massimo Mucchetti