Sergio Rizzo-Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 03/04/2010, 3 aprile 2010
L’ITALIA, IL MARE E LA LOTTA DI TRIESTE CONTRO IL DECLINO
«Trieste nella sua non lunga vita ha avuto soltanto due amori: l’Italia e ilmare. Entrambi, dopo un felice avvio, si stanno rivelando sfortunati. La seconda unione con la patria non risulta feconda; il porto, verso il quale la città si protende, è ignorato dalle navi italiane e straniere con una frequenza che ogni giorno si fa più allarmante».
Sembra scritto ieri mattina, quell’articolo di Gianfranco Piazzesi sul Corriere del ”64. Oddio, la previsione più fosca sulle banchine deserte si è rivelata un’esagerazione. Ma certo, il grande inviato aveva indovinato tutto. Spiegava un paio di giorni fa Silvio Maranzana sul Piccolo che dopo alcuni anni di crescita, quel porto al quale è indissolubilmente legata da quasi tre secoli la vita della città, ha subito l’anno scorso un crollo del 17%. Il più drammatico d’Italia, eccetto Livorno. Tanto per dare l’idea: nello stesso 2009 Venezia ha perso solo l’1,2% e Genova è tornata a crescere. E secondo Armando Costa, presidente dell’Aiom (Agenzia imprenditoriale operatori marittimi), i primi due mesi del 2010 sono stati «sconfortanti».
Colpa della crisi, certo. Ma anche del fatto che l’Italia, quell’Italia che tanti triestini hanno disperatamente amato fin dai tempi in cui i «favillatori» sognarono nel ”48 la «Repubblica di San Giusto» e Guglielmo Oberdan sacrificava la sua vita finendo sulla forca («Vogliamo formare una lapide / di pietra garibaldina / a morte l’austriaca gallina..») si è rivelata anche in questo caso distratta. Un esempio? Il progressivo abbandono da parte delle ferrovie. Ancora nel 1977 c’erano 14 collegamenti internazionali giornalieri che consentivano agli abitanti di sentirsi nel cuore dell’Europa grazie a treni che portavano a Vienna, Mosca, Varsavia, Istanbul, Atene, Sofia, Belgrado, Zagabria, Lubiana.
Ne sono rimasti due. Non bastasse, per andare a Milano si impiegano quattro ore e un quarto (come 33 anni fa), per andare a Genova sei ore e un quarto: mezz’ora in più. Direte: meglio prendere l’aereo. Per Milano non c’è più neanche quello. Abolito.
«Quando è venuto Mauro Moretti vantando il progetto «Centostazioni» gli ho detto: "Scusa, ma perché invece di portarci le stazioni non ci porti i treni?"’ spiega il sindaco Roberto Dipiazza – Cosa ce ne facciamo di una stazione dove non arrivano e non partono i treni?» E se questo è un problema non solo pratico ma anche psicologico per i cittadini, che già soffrono come «periferici» alla patria, figuratevi per le merci. C’è poi da stupirsi se qualcuno sospira ricordando il diverso trattamento che riservava alla città l’impero austroungarico, che stabilì il primo collegamento ferroviario tra Vienna e Trieste nel 1857? Per carità, anche se non mancano i nostalgici di Maria Teresa, l’amor patrio dei triestini italiani (gli sloveni, ovvio, sono un’altra faccenda) non è in discussione. Come racconta lo stesso Dipiazza «un’alzabandiera in piazza dell’Unità è ancora un avvenimento». Il tradimento di chi si ama, però, è un dolore ancora più cocente. E quello delle infrastrutture intorno al porto (non solo) sta diventando per la città un problema sempre più serio.
Perché Vienna decise di puntare su Trieste lo spiegò un giorno Karl Marx. Lui? Lui. In due articoli sul New York Tribune». del 1857. «Da una piccola rada rocciosa, abitata da pochi pescatori, nel 1814, quando le forze francesi sgombrarono l’Italia, Trieste si era fatta porto commerciale, con 23.000 abitanti e il suo commercio superava tre volte quello di Venezia. Nel 1835, un anno prima che il Lloyd austriaco nascesse, contava già 50.000 abitanti e, poco dopo, occupava il secondo posto dopo l’Inghilterra, nel commercio con la Turchia, il primo nel commercio con l’Egitto. Perché Trieste e non Venezia? Venezia era la città delle memorie; Trieste aveva, al pari degli Stati Uniti, il vantaggio di non possedere un passato. Popolata di commercianti e speculatori italiani, tedeschi, inglesi, francesi, greci, armeni, ebrei in variopinta miscela, non piegava sotto le tradizioni In più, continuava l’autore del Capitale, il porto di Venezia era «ottimo per le vecchie galee» ma «mancava di profondità per i moderni navigli».
Un secolo e mezzo dopo, la diagnosi è ancora buona. Anzi, in un mondo in cui il 95% del commercio estero avviene con i container trasportati da navi sempre più gigantesche, i fondali giuliani potrebbero garantire a Trieste un futuro che Genova e gli altri porti italiani non possono sognarsi. Eppure, i confronti sono impietosi. Dicono le statistiche del centro studi del porto di Amburgo che Trieste, con i suoi 335.943 «Teu» (un container da 20 piedi) movimentati nel 2008 (e scesi molto nel 2009), pesa non solo cinque volte meno di Genova e 32 volte meno di Rotterdam ma anche dieci volte e mezzo meno di Valencia. Il che, per un porto che era il più grande dell’Adriatico, il decimo dell’Europa, il terzo del mondo per il traffico dei caffè, è umiliante. Più ancora, però, secca a molti triestini il nome che nella classifica è immediatamente davanti: Capodistria.
Spiegava mezzo secolo fa Piazzesi: «Nel 1954 il movimento di transito attraverso i porti dell’alto Adriatico era così ripartito: il 94,7% per Trieste, il 5,3 per Fiume. Nel 1963 la situazione si è capovolta: il 67% per Fiume, il 33 per Trieste". E proseguiva: «Molti sostengono che la concorrenza jugoslava è imbattibile. Il regime di Tito paga meno gli operai, li fa lavorare di più e soprattutto non li fa scioperare. Si lamenta la forza e la burbanza delle compagnie degli scaricatori portuali triestini...».
Oggi, Capodistria garantisce meno tasse (il 23% fisso in tutto) e un costo del lavoro dimezzato. «Un operaio costa 41 mila euro qui e 23 mila di là, scaricare un container 90 euro qui e 72 là, l’ancoraggio 15 mila euro qui e 4.500 là, un rimorchiatore 16mila euro qui e 6 mila là», sospira Pier Luigi Maneschi, presidente di Italia Marittima, la compagnia di navigazione che una volta si chiamava Lloyd Triestino e oggi appartiene alla multinazionale di Taiwan Evergreen. Per fregare agli italiani il traffico di banane, gli sloveni hanno offerto ai grandi gruppi internazionali la franchigia nei Magazzini frigoriferi: dieci giorni di sosta gratuita della merce. Un’offerta, dicono gli italiani, assolutamente insostenibile per qualsiasi terminalista non sovvenzionato. Concorrenza sleale, accusano. Tanto più da quando la Slovenia è entrata in Europa. Non bastasse, si è sfogato più volte Maneschi, «le tariffe di Trenitalia sono del 30% più alte di quelle slovene e del 20 più alte di quelle dell’Europa del Nord».
La verità, sostiene Dušan Udovic, il direttore del Primorski Dnevnik, il giornale della minoranza slovena, «è che per sfruttare tutte le enormi potenzialità del Golfo i porti di Trieste e di Capodistria dovrebbero lavorare insieme. Fare sistema». Una tesi cara a molti, primo fra tutti, forse, l’ex sindaco e ex governatore Riccardo Illy.
Il guaio, almeno per certi versi, è che oggi Trieste a differenza di quando scriveva Marx, un passato ce l’ha. E così gonfio di rancori da impedire a molti di esaminare il panorama con la lucidità necessaria. Come se buttasse ancora sangue il ricordo del tenente Bozo Mandac che scendeva verso le Rive in piedi su una camionetta davanti alla colonna di carri titini decisi a ad annettere la città alla Jugoslavia comunista.
Una piccola ma significativa conferma delle difficoltà a superare certe fratture del passato è arrivata poche settimane fa. Quando lo scrittore triestino di lingua slovena Boris Pahor, 96 anni, autore di «Necropoli» e vincitore nel 2008 del premio Viareggio, dopo un tira-e-molla ha rifiutato la massima onorificenza comunale: «Io ho sofferto molto, sono stato rinchiuso nei lager di Hitler ma in precedenza ho patito anche le violenze del Ventennio. In tutta la mia gioventù non ho avuto una scuola. Mi è stata tolta dal fascismo. Niente lingua slovena, solo italiana. Se il Comune non può inserire la parola fascismo nelle motivazioni del premio, non me lo dia. Non piangerò per questo».
Roberto Dipiazza c’è rimasto male. Ma non ha mollato. Un pezzo di città non glielo avrebbe perdonato, di dar ragione «al vecio sciavo». Anche se lui, il sindaco, si vanta di essere stato il primo a celebrare sia i martiri delle foibe sia quelli della risiera di San Sabba. Quanto al porto, dice di non essere troppo preoccupato della concorrenza slovena: «Ghe gavemo lassà solo el carbòn». Magari, dicono i numeri.
Il punto è che ci vuole un investimento forte. Un progetto c’è. Da un miliardo e mezzo, appoggiato da Unicredit. Che dovrebbe rilanciare lo scalo triestino e sarebbe la traduzione del Piano regolatore generale del porto. Che ha avuto il via di chiunque altro abbia voce in capitolo a livello locale. Ma non ancora quello del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Il quale va per le lunghe. Un problema, tanto più che gli sloveni fan tutto più in fretta. Anche sotto il naso dei triestini. Com’è successo nel caso di due gru gigantesche montate da «Luka Koper», l’autorità che gestisce il porto sloveno e non aveva lo spazio giusto a Capodistria, sui moli presi in affitto al Porto vecchio. Costruite a Trieste, per fare concorrenza a Trieste.
Come mai tanta lentezza mentre gli altri corrono? E’ quello che Claudio Boniciolli, il presidente dell’Autority portuale, si è chiesto in un’intervista al direttore del Piccolo Paolo Possamai: «Non sono un appassionato del genere complottistico. Ma è davvero singolare il silenzio assordante con cui la classe dirigente triestina e regionale, salvo casi rari come il sindaco Dipiazza, il sottosegretario Roberto Menia e la presidente della provincia Maria Teresa Bassa Poropat, assiste al rinvio sine die, da parte del governo, di ogni iniziativa». Dice che aveva proposto di partire comunque con i lavori. Proposta respinta: «Rallentare, sopire, procrastinare». E ha buttato lì maliziosamente l’ipotesi di una «cupola»: «Mi chiedo se c’è chi vuole attendere di avere in mano l’Autorità portuale e con essa una stazione appaltante molto ricca di lavori. Magari l’attuale Autorità portuale sarebbe troppo rigorosa e trasparente».
Attenzione, ha scritto Possamai: «Trieste dovrebbe forse interrogarsi con maggiore profondità sul rischio di perdere per strada pezzi fondamentali della sua storia, della sua cultura, della sua economia che si chiamano Generali e Allianz (ovvero Lloyd Adriatico e Ras fuse assieme). Non è affatto scontato che l’una e l’altra possano mantenere qui la loro base operativa, e lo hanno detto a chiare lettere i loro top manager, se la città non sarà competitiva: che vuol dire in primis raggiungibile per aereo, treno, autostrada. Pare di invocare categorie dell’ovvio, purtroppo non è così dato che ci contentiamo da mesi o da anni delle promesse del ministro di turno per il ripristino del volo Trieste-Linate, ma nel frattempo a Roma le Fs tagliano tutti i treni non locali in transito sui binari friul-giuliani. Niente treni diretti per Milano, Roma, Vienna. Ma chi può fare impresa in queste condizioni?».
Ovvio: nessuno. O almeno è molto difficile. Prova ne sia che la città, che un secolo fa nel 1913 contava 1.099 «esercizi industriali», è ridotta ormai ad avere un’industria che pesa solo per il 12%. Certo, la celebre Grandi Motori che oggi si chiama Wärtsilä Italia, ha risolto finalmente, grazie a una bretella, i problemi che aveva qualche anno fa quando doveva smontare i motori più grandi perché i camion potessero superare un ponte e arrivare all’autostrada. E quel che resta del sistema industriale giuliano, ammaccato dalla crisi, in qualche modo regge.
Nuove imprese, però, zero. Colpa dell’accordo di programma sulle bonifiche. «Quattro aziende volevano insediarsi e non abbiamo potuto accoglierle e dieci vorrebbero espandersi e non lo possono fare. Un dolore», si è sfogato il presidente dell’Ente zona industriale di Trieste Mauro Azzarita. Troppi soldi da investire.
E così, mentre la città invecchia e si guadagna nelle classifiche del Sole 24 ore (titolo: «Trieste è colta, sportiva e ama la tavola») la palma di città più vivibile d’Italia ma anche l’appunto di un basso indice di imprenditorialità, cresce ancora di più il peso del comparto pubblico. Scriveva Piazzesi: «Trieste era una città di navigatori, di armatori, di commercianti; oggi è una città di statali. 23.000 pubblici dipendenti su meno di 100.000 persone occupate».
Eredità di un passato non di clientela ma di dolore. La sproporzione, che regge anche adesso se è vero che Trieste è seconda dopo Roma per quota di dipendenti pubblici, deriva dalla tragedia dell’esodo. E dalla scelta, generosa, dell’Italia (che molto aveva da farsi perdonare) di sistemare migliaia di esuli dall’Istria, dal Quarnero, dalla Dalmazia. Gente che già lavorava per lo Stato prima ed era stata buttata fuori dalle terre occupate dai titini. O gente che aveva perso tutto e doveva essere aiutata. Certo è che, mezzo secolo dopo, i triestini che ricevono ancora una busta paga pubblica sarebbero circa un quarto degli occupati.
Gioca strani scherzi, la storia. Al punto che Trieste, che dopo essere stata amputata del suo retroterra soffrì per anni del suo essere schiacciata contro la cortina di ferro, si trova oggi per certi aspetti, alle prese com’è con la concorrenza al di là del confine di una realtà più giovane, più fresca, più competitiva, quasi a rimpiangere qualcosa dei tempi andati. Lo racconta proprio Roberto Dipiazza, che prima di buttarsi in politica come sindaco di Muggia e poi di Trieste, aveva fatto i soldi coi supermercati. Gli avversari dicono che è un po’ sbruffone, i suoi lo adorano. Berlusconiano ironico fino al sacrilegio («Mi, le mule, me le pago da solo», ammicca) ha vietato l’accattonaggio e il commercio abusivo, messo fuori legge i lavavetri ai semafori per «intralcio e pericolo alla circolazione pedonale e veicolare», fissato una multa di 500 euro per chi fa pipì o getta un chewing-gum per la strada, stabilito sanzioni astronomiche (fino a 7 mila euro!) per chi imbratta imuri con lo spray. Inutile dire che i leghisti lo adorano come fosse uno dei loro. Anche se gli ha svuotato il bacino elettorale.
Che anni, gli anni del confine e delle orde di jugoslavi che arrivavano per comprare! «Non riuscivo neanche a contare i soldi’ giura Dipiazza ”. Li buttavo dentro i sacchi della spazzatura, quelli neri, e li portavo direttamente in banca per contarli lì, mentre li versavo. Dollari canadesi, marchi, dollari americani... Ordinavi un container di jeans, li mettevi sui banconi la mattina, alla sera non ne avevi più neanche uno. Nelle gioiellerie arrivava gente che chiedeva: "mi dia 20 fedi, 40 ciondoli, 200 catenine". Io nel mio supermercato vendevo un bilico di caffè la settimana. Un bilico! E a container vendevo anche il whisky Ballantine».
Un delirio. Al punto che, dice il sindaco, «qui non volevano fare le autostrade perché temevano che i clienti, ciapa su, andassero a far la spesa nei supermercati friulani o veneti». Miopia. La stessa che, secondo le opposizioni, spingerebbe il gruppo di potere che ruota intorno al «dominus invisibile» della politica locale, l’ex Melone, ex craxiano e infine berlusconiano Giulio Camber, «a gestire il declino piuttosto che rischiare di affrontare l’avventura di una città che rinasce». Chi prenderà il posto di Dipiazza, il quale dovrebbe finire proprio al porto, non si sa. A lui, costretto dalla legge dei due mandati a non ricandidarsi, un po’ dispiace mollare: «Ormai non faccio neanche più la campagna elettorale’ gigioneggia ”. "Invece di fare comizi e manifesti, vado a lavorare nel mio supermercato. Scarico cassette, sistemo le zucchine, sposto detersivi... Alla gente fa più effetto che vedermi vestito da donna. Ostrega, el sindaco che lavora! Emi nello stesso tempo me ciapo un franco e me ciapo un voto».
Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella