Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 03/04/2010 G. Sar., Corriere della Sera 03/04/2010, 3 aprile 2010
2 articoli - I GAS SERRA CHE INSIDIANO I CONTI PUBBLICI - Il governo è pronto a schierare la Cassa depositi e prestiti per pagare il «conto europeo» antinquinamento
2 articoli - I GAS SERRA CHE INSIDIANO I CONTI PUBBLICI - Il governo è pronto a schierare la Cassa depositi e prestiti per pagare il «conto europeo» antinquinamento. Una somma consistente: 840 milioni di euro, da qui al 2012, che aggiorna e supera le ultime stime (400-750 milioni). L’Istituto guidato dall’amministratore delegato Massimo Varazzani (presidente Franco Bassanini) interverrà come garante di prestiti concessi dal sistema bancario alle imprese che producono energia e che potranno beneficiare di una moratoria fino al 2013. L’obiettivo della manovra è evitare che «l’effetto Kyoto» si traduca in un aumento delle bollette della luce. una lunga storia: l’Italia sconta i ritardi accumulati nell’applicazione del Protocollo di Kyoto e, secondo molti analisti, anche i risultati ottenuti nel negoziato europeo del 2008 (condotto dal governo di centrosinistra) sui tetti di emissione di anidride carbonica assegnati ai singoli Paesi. Proprio l’altro giorno la Commissione europea ha diffuso i dati preliminari riferiti al 2009. A prima vista l’Italia figura in una posizione vantaggiosa, considerando che la riduzione di CO2 raggiunge il 16,4%, a fronte della media europea pari all’11,2% (in Germania meno 8,4%, in Gran Bretagna meno 12,5%). La frenata, in realtà, è quasi interamente collegata alla recessione, secondo un’equazione semplicissima: meno produzione, uguale meno inquinamento. Ma se si allarga la visuale, e soprattutto se si guarda in avanti, il quadro si capovolge. Il punto di partenza è costituito dagli impegni assunti a Bruxelles, nel quadro dell’azione comune per contenere le emissioni dei gas serra (a cominciare dall’anidride carbonica), con l’obiettivo di scongiurare il surriscaldamento del pianeta. Se si va all’essenziale ecco comparire il «Piano nazionale di assegnazione dei permessi di emissione alle imprese italiane» (il cosiddetto Pna), approvato il 28 febbraio del 2008. Il provvedimento recepisce la direttiva europea «emissions trading» che prevede, sostanzialmente, due cose. Primo: fissa una quota di emissioni per ogni Paese (da distribuire tra le industrie attive sul territorio nazionale). Secondo: istituisce un mercato in cui comprare o vendere i certificati CO2, cioè «bonus» aggiuntivi che consentono alle imprese di superare il limite assegnato di anidride carbonica. Per il periodo 2008-2012 il vincolo-obiettivo per l’Italia è pari a 201,63 milioni di tonnellate all’anno. «Un traguardo fuori dalla portata del nostro sistema economico, come avevamo già segnalato a suo tempo», sostiene Corrado Clini, direttore generale del ministero dell’Ambiente e presidente del Comitato nazionale per la gestione della direttiva europea «emissions trading». In altri termini è come se il governo italiano fosse tornato da Bruxelles con una cassetta di gettoni per consentire alle imprese di restare al tavolo della produzione. Naturalmente lo spirito della direttiva era quello di costringere il mondo produttivo a modernizzare gli impianti e ad abbattere le emissioni di CO2. Ma, per un verso o per l’altro, l’obiettivo non è stato raggiunto. Tanto che la stessa Unione europea ha cambiato impostazione per il periodo 2013-2020 (vedere altro articolo nella pagina). Nel frattempo il governo italiano ha finito rapidamente i «gettoni» e il «buco» di CO2 si è già trasformato in una mina vagante per i conti pubblici o, forse ancora peggio, per le bollette della luce. Secondo Clini i numeri sono chiari: «Nonostante la crisi delle produzioni industriali mancano 30 milioni di tonnellate di CO2 per coprire i nuovi impianti che sono entrati in funzione dalla metà del 2009 e per quelli che avvieranno l’attività entro il 2012. Circa l’80% è rappresentato da centrali termoelettriche strategiche per la sicurezza energetica del Paese». Nell’elenco dei nuovi entranti «termoelettrici» spiccano i tre gruppi Enel di Torvaldaliga Nord (Civitavecchia), che avrebbero bisogno di una quota complessiva di 23 milioni di tonnellate di CO2. Seguono le centrali Eni-Egl di Ferrara, gli impianti di Sorgenia ad Aprilia (Roma) e Modugno (Bari), quelli della Erg a Melilli (Siracusa). La lista comprende anche cartiere, cementerie, acciaierie. A questo punto non restano molte possibilità. Le imprese rimaste scoperte devono comprare i certificati sul mercato europeo dell’«emissions trading». E per mettersi in regola, calcola il sottosegretario del ministero dello Sviluppo economico Stefano Saglia, «occorrono 840 milioni di euro». Questi soldi vanno trovati al più presto, perché ogni anno le imprese devono dimostrare di avere un «bilancio energetico» in regola. In ogni caso l’alternativa a fine corsa (2012) sarebbe devastante. La Commissione europea aprirebbe una procedura di infrazione che si concluderebbe con multe colossali «3 miliardi di euro», tira le somme Corrado Clini. Il governo di Silvio Berlusconi, o meglio, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, è curvo sul dossier da diversi mesi. Il primo tentativo è stato politico-diplomatico. Due mesi fa il premier ha scritto direttamente al presidente della Commissione europea, José Manuel Durao Barroso, chiedendo comprensione e un allentamento del vincolo per l’Italia. Ma Barroso non ha neanche risposto. «Abbiamo capito che non ci sono margini per rivedere i tetti in sede europea e ora lavoriamo a una soluzione interna», annuncia Saglia. Nel frattempo il presidente di Assoelettrica, l’associazione nazionale delle imprese elettriche, Giuliano Zuccoli, ha avvisato più volte il governo, con un messaggio che si può riassumere in questo modo: attenzione, se ci lasciate soli noi ci compriamo i certificati sul mercato europeo, ma i costi saranno inevitabilmente scaricati sulle bollette elettriche. Nelle ultime settimane il governo ha accelerato, cercando una soluzione. In un primo momento si era pensato a un emendamento secco da inserire nel decreto sulla crisi Alcoa, ma il meccanismo di rimborso alle imprese si sarebbe, appunto, scaricato sulle bollette degli utenti. «Ora, però, il provvedimento è pronto – dice Saglia ”. Abbiamo preparato un testo che rinvia i pagamenti dovuti dalle aziende al 2013. Le somme per acquistare i certificati sul mercato europeo saranno anticipate dal sistema bancario, con la garanzia della Cassa depositi e prestiti. Con il ministro dell’Economia Giulio Tremonti stiamo studiando un meccanismo simile alle cartolarizzazioni, in modo da diluire l’impatto sulle imprese, contenendo anche gli interessi». Nei prossimi giorni il governo valuterà a quale provvedimento agganciare la norma «salva-inquinamento». «Forse – conclude Saglia – lo metteremo in un decreto che il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo sta già preparando su vari temi, come il trattamento dei rifiuti». In ogni caso la manovra dovrebbe arrivare in Parlamento entro aprile. Giuseppe Sarcina IL GRANDE BAZAR EUROPEO DEI «PERMESSI CO2» - L’acciaieria franco-indiana Arcelor-Mittal ci ha costruito mezzo bilancio. Dal 2007 al 2009 ha guadagnato 108 milioni di dollari vendendo i permessi CO2 sul mercato «emissions trading» europeo. Ancora meglio ha fatto la cementeria francese Lafarge: 149 milioni di euro incassati solo nel 2009 nello stesso modo. I numeri, citati qualche giorno fa dall’International Herald Tribune, sono la dimostrazione migliore di quanto sia finita fuori strada, rispetto alle più nobili intenzioni, la strategia Ue antinquinamento. La gabbia di vincoli costruita da Bruxelles e dai governi europei ha prodotto risultati paradossali. Distorsione della concorrenza tra imprese dello stesso settore; premi alle industrie e ai Paesi più forti e, simmetricamente, penalizzazioni alle aziende arrivate per ultime e quindi più avanzate tecnologicamente. Certo, l’impostazione di base è già stata corretta, e il sistema attuale durerà fino al 2012, dopodiché si cambierà radicalmente. La differenza, assicurano gli esperti, sarà sensibile. Finora, cioè per il periodo 2008-2012, si è seguito un criterio «storico» per assegnare i tetti di emissione dell’anidride carbonica ai diversi Paesi. Gli Stati con i sistemi industriali più radicati e più grandi hanno ottenuto margini maggiori. E, in un secondo momento, ogni governo ha deciso come ripartire i vincoli al suo interno, premiando più un settore rispetto a un altro. L’esito è oggi evidente. Le imprese francesi, tedesche o inglesi hanno ottenuto limiti più bassi rispetto alle concorrenti italiane o spagnole. In più hanno riversato i certificati CO2 sul mercato europeo, realizzando consistenti profitti. Ma non basta. La Germania, per esempio, ha ottenuto una quota di emissioni che di fatto non imponeva sacrifici ai grandi colossi tedeschi dell’energia (E.on, Rwe). E inoltre, in questi anni, Berlino ha potuto smantellare con tranquillità le arcaiche centrali a carbone ereditate dalla Germania Est, senza restituire a Bruxelles le relative autorizzazioni a inquinare. «In definitiva – osserva Corrado Clini, direttore generale del ministero dell’Ambiente’ per quanto mi risulti, ma aspetto ancora una smentita, nel periodo 2008-2012 l’applicazione delle direttive europee finora non ha generato un solo euro di investimento in tecnologie antinquinamento». Ora il problema è arrivare senza troppi danni al 2012, quando si invertirà la marcia. La nuova direttiva, approvata nel 2009, fissa un «obiettivo medio europeo» (un «benchmark»), cioè un riferimento comune stabilito settore per settore e valido per tutti i Paesi della Ue. In sostanza ai governi sarà sottratto il potere discrezionale di favorire (o interferire) sulle quote di emissioni accordate alle industrie. Il vincolo-obiettivo per gli impianti termoelettrici, per esempio, sarà invece il frutto di un negoziato tra i Paesi europei. Ma una volta individuato sarà uguale per tutti: dalla Germania a Malta. Sullo sfondo, però, si profila un altro problema. La Cina è ormai il primo Paese esportatore del mondo. Il Guangdong è, al tempo stesso, l’officina dell’Occidente e la regione più inquinata del pianeta. In alcuni Paesi, come in Francia, comincia a farsi strada la domanda riportata nei giorni scorsi dal quotidiano Le Monde: a chi bisogna imputare le emissioni di gas serra? Ai Paesi che fabbricano i prodotti o a chi li compra? Il presidente Nicolas Sarkozy chiede che la Ue introduca una «carbon-tax» sulle merci in arrivo dai Paesi più inquinanti. La Cina ha risposto che non se ne parla neanche. una nube di C02 in arrivo sui rapporti politico-economici internazionali. G. Sar.